Incontriamo il karateka sudafricano alla vigilia del suo impegno in Karate1.
È nostro ospite Michael Du Plessis, cuore italiano, ma portabandiera del karate sudafricano.
Gli appassionati italiani di karate, in particolare del kata, potrebbero avere due chances come tifosi alle prossime Olimpiadi. Un nome molto probabile è quello di Mattia Busato, ma c’è anche un atleta che attualmente occupa l’ultima posizione a ridosso dei qualificati ai giochi olimpici, è undicesimo, e per l’appunto è un po’ italiano anche lui: Michael Du Plessis, due volte campione continentale, tradisce dal cognome un’ascendenza francese, però per l’appunto vanta origini nel Bel Paese.
Come tanti suoi connazionali, inguaribilmente ottimisti, Michael sfoggia uno sguardo luminoso e un sorriso sincero, aperto, che lo rende ancora più simpatico.
L’abbiamo intervistato alla vigilia dell’impegno in Karate1, nella tappa marocchina di Rabat. Vagamente fatalista, gentile e introverso, preferisce hobby come la lettura e la musica alle attività all’aperto, a parte lo sport.
Ciò che distingue il karate da altri sport è il livello di adattamento alle circostanze.
Ciao Michael, cominciamo provando a raccontare come è arrivato il karate in Sudafrica.
Da noi il karate ha preso parte alle gare WKF (World Karate Federation) già dal 1944, prima eravamo stati messi al bando a causa dell’apartheid. Le zone in cui è maggiormente diffuso sono Durban, Città del Capo e il Gauteng. Sfortunatamente, finora, da noi c’è stato un solo campione del mondo: Sandra Louw nel 1994 [SLK Sandra Louw Karate ndr].
Oggi tentiamo di competere al massimo livello, per molte ragioni. In RSA (Repubblica Sudafricana) predomina lo Shotokan in termini numerici, ma il Goju è prevalente per le presenze di atleti in Nazionale. Aggiungo che attualmente il karate è il sesto sport per numero di tesserati e il presidente è di etnia indiana, quindi, nessuna discriminazione razziale.
Banalmente, la diffusione dei vari stili può essere attribuita alla diversa colonizzazione dei vari territori: paesi di lingua francese = Shotokan; paesi del sud del continente = Goju Ryu.
A proposito, se tu potessi “rubare” qualcosa ai karateka che hanno optato per lo Shotokan, che cosa ti prenderesti?
Lo Shotokan è uno stile focalizzato molto sulla fisicità, che è uno dei miei punti di forza. Se cominciassi a praticare Shotokan, penso che per me la vita sarebbe più facile! Anche perché lo Shotokan è uno stile che non lascia spazio all’interpretazione personale, come accade per lo Shito o il Goju.
Quanto è popolare il karate in Sudafrica, per interesse dei media, numero di praticanti, coinvolgimento della scuola?
Il karate è popolare a scuola, ma la stampa e i media non gli dedicano attenzione; io sono in Nazionale da nove anni e non mi hanno mai intervistato in tv o alla radio.
Come tante altre federazioni che s’impegnano in raccolte benefiche di vario genere, oppure offrono le palestre per ospitare le lezioni scolastiche dei bambini, anche la RSA è attiva in questo senso?
No, sfortunatamente no, la mia federazione non ha programmi specifici. Io quando sono in viaggio per lavoro mi metto a servizio di chi soffre, gratuitamente, con le mie competenze di fisioterapista.
Fra le sciagure più grandi per l’Africa contemporanea annoveriamo i morti e i malati di Aids. La federazione collabora a programmi sanitari di prevenzione, offre anche supporto psicologico ed economico a chi si ammala ecc.
Non ho familiarità con nessuno che abbia contratto questa malattia, ma quando lavoro in ospedale incontro spesso pazienti che sono stati infettati. So che ci sono tanti malati, ma onestamente non ne ho mai incontrato uno.
Torniamo a te, come hai cominciato a praticare? Il karate ha scelto te o tu hai scelto il karate?
È successo che vicino casa avevo un dojo di Goju, quindi… mi ha scelto lui.
Ti piacevano o praticavi anche altri sport?
Sì sempre, anche adesso. Golf, rugby, cricket, tennis, soccer, hockey e nuoto soprattutto.
A scuola da me c’era molto interesse verso lo sport e i miei non erano certo degli sportivi. Non sono sicuro che se non fossi stato un atleta avrei trovato qualcosa su cui puntare per molto tempo. In effetti, ho sempre avuto l’aspirazione di diventare un terapeuta, perché amo muovermi e studiare il corpo umano in tutti i suoi aspetti.
Anche tu hai subito il fascino di qualche interprete di action movie, espressamente di arti marziali?
Jackie Chan e Bruce Lee sono i miei modelli, ma non sono mai stato ispirato da alcuno, anche se ho imparato molto da loro e ho capito molto di più delle arti marziali, apprezzando il loro lavoro fin nei dettagli.
Livio Berruti – medaglia d’oro nei 200 metri alle Olimpiadi Roma 1960 – in un’intervista recente ha dichiarato che sarebbe opportuno far praticare ai ragazzi in crescita almeno uno sport individuale, che realizzi il talento del singolo, e uno di squadra, per insegnare il valore della collaborazione e diminuire gli eccessi di individualismo. Tu sei d’accordo?
Io li raccomando entrambi, gli sport di squadra sono il massimo per imparare a lavorare in maniera coordinata con gli altri. Ma è importante anche assumere il controllo di se stessi, perché molto spesso le nostre reazioni dipendono da questo fattore, dalla disciplina, dall’autocontrollo. Ciò che distingue il karate da altri sport è il livello di adattamento alle circostanze. È possibile diventare contemporaneamente un atleta, uno storico o un teorico, o uno specialista in biomeccanica. Inoltre, può praticarlo chiunque, dappertutto.
In RSA predomina lo Shotokan in termini numerici, ma il Goju è prevalente per le presenze di atleti in Nazionale.
Nel karate, hai scelto il kata e non il kumite, come mai?
Per me kata e kumite sono la stessa cosa, ma in WKF vige la specializzazione e così è impossibile essere bravi in entrambi. Meglio concentrarsi su uno dei due. Il Goju è più completo per questioni interpretative. Purtroppo, non ha standard, è impossibile definire un buon kata; così com’è impossibile realizzare buoni kata se non si ha il supporto di media, famiglie, governi nazionali e regole concordate, ma davvero troppo ambigue.
Un tuo parere sulle nuove norme arbitrali nel kata. È più conforme allo spirito olimpico la valutazione a punteggio, con la divisione degli atleti in gironi e l’attribuzione delle teste di serie o erano meglio le vecchie gare a bandierine rosse e blu? Sappiamo che diversi atleti hanno espresso la loro contrarietà al nuovo regolamento e tu sei fra questi.
(Sorride) Oh, è difficile! Personalmente credo che le bandierine siano un sistema più accurato, anche perché molti arbitri non hanno digerito il nuovo sistema, che in potenza è valido, però è pure ambiguo ed è difficoltoso applicarlo.
Sei un paladino riconosciuto anche nella battaglia contro il doping…
La droga è un pericolo per la salute umana e le competizioni, chi la usa la sfrutta quando vincere diventa un’ossessione.
C’è qualcuno dei campioni sportivi, del passato o del presente, che trovi abbastanza in linea con le tue convinzioni, che ti piaccia abbastanza da poterlo citare?
Più che dei campioni citerei un evento: Parigi, Campionato del mondo 2012, io non c’ero e ho visto solo i video, davvero emozionanti. I francesi sono bravissimi a organizzare eventi.
L’ingresso del karate alle Olimpiadi, quali conseguenze porterà secondo te? Non rischia di soffrire di gigantismo come, per esempio, l’atletica?
C’è gran “fame” di karate in giro e in tanti coltivano la speranza di gloria olimpica. La WKF diventerà un’enorme impresa e penso sia questa la via per una diffusione ancora maggiore.
A proposito dell’interesse che il karate suscita nei media (sembra aumentato da quando è diventato sport olimpico) una tua opinione sui molti youtuber e videoblogger che si cimentano col karate, compreso te?
Penso che sia esattamente ciò di cui il karate ha bisogno oggi: la comunicazione.
Sei stato in Giappone per fare esperienza come karateka, sei d’accordo con chi pensa che lo spirito originario del bushido ormai laggiù non esista più o sia molto compromesso?
Sinceramente lo spirito del bushido non so cosa sia. Al di là di questo, lì mi sono sentito veramente a casa, rispettato e accolto da uno staff tecnico di alto livello come un loro pari.
Sei musulmano, oltretutto bianco, combinazione rara nel tuo Paese, quanto conta l’esperienza religiosa nel tuo quotidiano e nella pratica del karate?
Moltissimo, è un’ispirazione continua e, inoltre, nel mio Paese non vedo discriminazioni di sorta per questo.
Qual è il tuo progetto più ambizioso legato al karate – immagino sia connesso tuo dojo, che ha un nome poetico e carico di memoria, “Va pensiero”, e alle sue attività – o il tuo rimpianto, se ne hai?
Potenzialmente il karate è una macchina da soldi, penso per esempio al merchandising, ma praticanti e spettatori ce ne sono pochi. La speranza è quella di contribuire a una sua maggior diffusione. Difficile oggi, perché richiede tanti sacrifici, soprattutto economici, che ricadono su famiglie come la mia – che non annovera karateka.
I miei sogni più grandi sono per le olimpiadi, che occasione per l’Africa e per me!
Di rimpianti per fortuna non ne ho.
Lo Shotokan è uno stile focalizzato molto sulla fisicità, che è uno dei miei punti di forza.
Il tuo simbolo è un leone dalla lunga criniera e il tuo soprannome è ‘the King’, come mai questa scelta?
Per il king, oh, è piuttosto divertente la storia. In realtà l’idea non è mia, ma nasce da una famosa canzone d’amore di Elton John che cantavo spesso e che ha il leone nel testo: Can you feel the love tonight? e, così, da allora sono il king.
Il leone rappresenta bene le mie radici e le mie speranze. Karate, per me, vuol dire cercare benessere, equilibrio e sicurezza fisica, spero sia così anche per gli altri.
Grazie Michael, per la tua disponibilità.
It is my pleasure!