“Anche tu sei come questa tazza: sei pieno. Se prima non ti svuoti, come posso io insegnarti qualcosa?”
L’altra sera ero in palestra e, come mi capita a fine lezione, arrivo in spogliatoio, dopo il saluto, dopo qualche pacca sulla spalla e due chiacchiere con gli allievi. Apro la borsa per prendere l’accappatoio e quanto mi occorre per la meritata doccia, sfilo la cintura nera e con cura la ripongo al sicuro, nella borsa. È in quel momento che l’occhio mi cade sull’altra cintura che tengo sempre con me, la cintura bianca e, diversamente dalle altre sere, la mente inizia a partorire pensieri e sensazioni, complice forse l’insolito silenzio.
In quegli anni non c’era molta differenza tra essere dei praticanti poco più che ragazzini ed essere dei praticanti adulti.
Era il 1988 quando nella palestra delle scuole elementari di Noale (VE), appena tredicenne, mi accingevo a sostenere l’esame per la cintura nera. In quegli anni non c’era molta differenza tra essere dei praticanti poco più che ragazzini ed essere dei praticanti adulti. Il programma tecnico era il medesimo, l’impegno e la serietà richieste uguali.
Ricordo che l’esame si teneva a porte chiuse, entravano solo quattro esaminandi per volta, niente genitori, niente pubblico e la commissione giudicante era esterna. Non passavano tutti, non era un esame pro-forma, erano richieste capacità tecnica e maturità sia nei gesti sia nel temperamento.
Morale della favola, l’esame va bene, esco e trovo i miei genitori sorridenti e orgogliosi che frettolosamente sfilano da una borsetta di plastica una cintura nuova di zecca, bella, di seta nera e lucida come si usava al tempo. La marca? Tokaido, ovvio! Non c’erano marchi altrettanto blasonati al tempo, anche il Karate-gi “doveva” essere rigorosamente Tokaido.
Ricordo con tenerezza quei momenti anche se molti particolari col passare degli anni sono sfumati, persi, rimangono più che altro le sensazioni. Quella è stata la mia prima cintura nera, quella vera che conservo ancora in un cassetto, nonostante negli anni abbia lasciato il posto ad altre cinture nere.
E la cintura bianca che porto nella borsa?
Quella è più “normale” fa parte del “corredo”, è un optional che ti danno di solito quando acquisti un Karate-gi nuovo, perché si suppone che tu sia un novizio e ne abbia necessità.
Una di quelle cinture bianche la tengo sempre in borsa, perché mi capita spesso di sentire il desiderio di voler fare nuove esperienze nel mondo delle arti marziali. Partecipo con piacere a stage e lezioni di Judo o di Aikido, quando ne ho l’opportunità, e in quelle occasioni sfoggio con orgoglio la mia cintura bianca. Alcune volte mi conoscono e mi invitano a tenere la mia cintura abituale, quella nera di Karate, ma ringraziando declino l’invito e stringo in vita la mia (altrettanto) amata cintura bianca.
… si prova un grande senso di leggerezza e la piacevolezza di sentirsi completamente allievo.
Non c’è nessuna vergogna nel mettersi la cintura bianca, non c’è nessuno status da difendere, anzi, si prova un grande senso di leggerezza e la piacevolezza di sentirsi completamente allievo. Un foglio nuovamente bianco. Un po’ come racconta la storia zen in cui il novizio si stupisce quando il maestro non smette di versare il tè nella tazza già piena e traboccante e, impassibile, quest’ultimo lo redarguisce dicendo: “Anche tu sei come questa tazza: sei pieno. Se prima non ti svuoti, come posso io insegnarti qualcosa?”.
Inoltre, questa cintura bianca in borsa, vicino alla cintura nera è (anche) un monito che mi ricorda che non è passato poi molto tempo da quando ho iniziato a tirare i miei primi oi-tzuki e che lunga è ancora la via verso il “vero” oi-tzuki.
Questa cintura bianca mi ricorda che non sono arrivato, anzi che sono ben lontano dall’essere arrivato, tiene a bada ogni impennata dell’ego, mi ricorda che il vero Karate-do è racchiuso nella pratica, nel perfezionamento continuo che si ottiene percorrendo senza tregua la Via, risiede nel lavoro sul tatami e fuori dal tatami, perché l’arte marziale è qualcosa che vive, interiormente, anche fuori dal Dojo. Come ci ha lasciato detto il Maestro Gichin Funakoshi nei famosi venti principi del Karate-do: “Il Karate è come l’acqua calda, occorre riscaldarla costantemente o si raffredda”.
Questa cintura bianca, che conservo gelosamente in borsa, mi ricorda che quando indosso la cintura nera ho una responsabilità nei confronti dei praticanti più giovani, non importa che io stia conducendo la lezione come Istruttore o sia semplicemente un praticante. La cintura nera rappresenta la mia anzianità (non la mia bravura!) e mi sprona a essere esempio indefesso di costanza, correttezza e dedizione nella pratica ed esempio di rettitudine nella vita.
Il vero Karate-do è racchiuso nella pratica, nel perfezionamento continuo.
Ci sono sere in cui arrivo in palestra stanco dalla giornata di lavoro oppure pensieroso e distratto, ma ogni volta che allaccio la cintura alla vita, nel momento stesso in cui con un colpo secco serro il nodo, tutto svanisce, come se una forza estranea a me iniziasse a pervadere il mio corpo.
Il mio Maestro diceva che la differenza tra una cintura nera e una cintura colorata sta nel fatto che la cintura nera è in grado, in qualsiasi momento, di dare il massimo di sé in ciò che fa, indipendentemente da quanto è stanca, senza il bisogno che nessuno la sproni, senza che nessuno la debba incitare o esortare.
Io nella borsa tengo sempre una cintura bianca accanto alla cintura nera, per ricordarmi tutto questo.