Di per sé la distanza non è positiva o negativa, è un’opportunità. Può essere una distanza emotiva, oppure una distanza fisica, magari una sovrapposizione delle due.
Che cosa significa distanza?
distanza s. f. [dal lat. distantia, der. di distare «distare»]. – La lunghezza del tratto di linea retta […] che congiunge due punti (e che s’identifica col concetto del minimo percorso tra questi) o, più genericamente, la lunghezza del percorso fra due luoghi, due oggetti, due persone. (Treccani.it)
È una definizione che non mi soddisfa del tutto; manca un elemento essenziale, più profondo, complesso, ovvero l’aspetto emotivo. La distanza è senz’altro una lunghezza misurabile, ma spostandoci su un piano meno razionale, la distanza è anche l’essenza che pervade la nostra vita, declinata in gradi di vicinanza, prossimità, intimità, assenza. La distanza è un fatto egualmente esteriore e interiore, e ci definisce come persone inserite nello spazio, nel tempo e nelle relazioni sociali.
Il grado di distanza che percepiamo tra noi e il prossimo, tra noi e le cose, genera inevitabilmente una reazione emotiva.
Ci muoviamo continuamente verso qualcosa e lontano da qualcos’altro. Esiste sempre un’oscillazione tra aspetti tangibili e stati dell’animo, tra fisicità e sensazione, tra contatto e percezione. E mentre ci spostiamo, più o meno consapevolmente tra questi livelli, la distanza muta e si converte di continuo in elementi prima concreti, poi effimeri, e viceversa.
Il grado di distanza che percepiamo tra noi e il prossimo, tra noi e le cose, genera inevitabilmente una reazione emotiva di qualche tipo, che a sua volta può scatenare una reazione fisica. Il disgusto, per esempio, può indurre un allontanamento; l’amore diventa attrazione; la paura a volte ci blocca, a volte ci fa volare via; la curiosità è un potente catalizzatore per l’avvicinamento; la noia, al contrario, può essere motivo di stasi. Credo che queste reazioni emotive siano essenziali, nel bene e nel male, e che la capacità di gestirle faccia la differenza nella nostra relazione con il mondo.
Chiunque pratichi arti marziali da un certo tempo, probabilmente avrà una buona familiarità con il concetto di distanza, se non altro perché è da considerarsi un elemento imprescindibile per assicurare l’efficacia delle tecniche applicate.
Nella mia esperienza, credo che non sia mai esistita una lezione di karate durante la quale non si sia nominata la distanza. Distanza lunga, corta, giusta… ma rispetto a cosa?
La chiave sta nella risposta a questa domanda, attorno alla quale ruotano tutti i discorsi sulla strategia di combattimento.
Non si combatte da soli. L’avversario è parte attiva dell’azione: concede e toglie distanza, si sposta, attacca, difende, applica a sua volta strategie. Inserirsi in modo efficace nell’azione dell’avversario, al fine di interromperla o per sfruttarla a nostro piacimento, è impresa tutt’altro che semplice; la distanza assume un ruolo essenziale e non solo in termini di lunghezza, ma anche e soprattutto come separazione tra l’intenzione e il risultato dell’azione, come differenza tra quello che vorrei fare e quello che faccio. Diventare eccellenti nella gestione della distanza e della strategia è in parte legato al talento e alla predisposizione naturale della persona, ma è altrettanto fondamentale maturare esperienza, anche a costo di sbagliare ripetutamente, e allenare la tecnica.
Come praticante di arti marziali devo ammette che la distanza è diventata per me un tema centrale da relativamente pochi anni; non perché il maestro non ne parlasse, ma perché alcuni concetti si chiarificano, almeno in senso astratto, solo dopo un certo tempo. L’evoluzione del praticante di arti marziali è tutta qui, nell’aumentare il livello di profondità dell’allenamento, dove per ‘profondità’ si intende la capacità di migliorare la performance da un punto di vista fisico, tecnico e mentale.
Per me la distanza è prima di tutto uno spazio metaforico, quello che separa il pensiero e l’azione.
Per me la distanza è prima di tutto uno spazio metaforico, quello che separa il pensiero e l’azione. In questo senso, la distanza è un ostacolo. Il praticante di arti marziali non dovrebbe pensare prima di fare, ma dovrebbe interiorizzare un comportamento da adottare in determinate situazioni e dovrebbe essere in grado di reagire in modo automatico a precisi stimoli, e non perché deve pensare di farlo, ma solo perché l’esperienza e l’allenamento gli consentono di prendere decisioni in modo coerente e funzionale alla realtà in cui è inserito.
Qual è il nostro primo istinto in un combattimento? Siamo predisposti ad attaccare? Oppure preferiamo aspettare e difendere? Che sia una o l’altra cosa, è importante esserne consapevoli, al fine di sfruttare le nostre inclinazioni naturali e per aumentare l’attenzione su quello che si manifesta con maggiore fatica.
Pratico karate da più di metà della mia vita, ma ho avuto occasione di avvicinarmi ad altre arti, alcune con una matrice affine al karate e altre guidate da fondamentali piuttosto differenti, ma in tutte ho sempre osservato che la relazione con l’avversario è essenzialmente la stessa, articolata sul concetto di distanza, corta o lunga che sia, e di strategia.
Di per sé la distanza non è positiva o negativa, è un’opportunità. Può essere una distanza emotiva, oppure una distanza fisica, magari una sovrapposizione delle due; il combattimento si fonda sulla capacità di sfruttare l’opportunità a nostro vantaggio.
Se la distanza è una lunghezza, dobbiamo valutarla anche in base al tempo e alla velocità che serviranno per ridurla o aumentarla, allenando le tecniche più efficaci che potranno essere d’aiuto in una certa situazione. Così la distanza diventa anche ritmo, accelerazione, forza, caratteristiche alle quali si lega l’emotività di ciò che crediamo di poter fare per sfruttare l’opportunità. Sarò abbastanza veloce? Quanti passi devo fare per andare a segno? E che cosa farà l’avversario mentre io mi muovo o sto fermo? Se anche a voi è capitato di combattere e farvi tutte queste domande, vi sarete poi resi conto che cercare una risposta in quel frangente non è stato d’aiuto.
L’incertezza che fa esitare si manifesta dentro di noi come una separazione tra mente e corpo, una dissonanza che si palesa all’esterno in qualche genere di errore.
Essere consapevoli dello spazio e del tempo, della nostra reazione emotiva rispetto all’avversario, delle nostre insicurezze, dei nostri punti di forza è un lavoro enorme; capire perché ho paura, perché mi sento spavaldo, perché credo di non potercela fare, perché ho smania di vincere, perché non riesco a trovare un’apertura nella guardia dell’altro, perché vengo colpito troppo spesso, è un processo estremamente complesso, ma è proprio il motivo per cui bisogna perseverare nell’allenamento.
Senza consapevolezza, se non impariamo a conoscerci e ad approfondire l’arte marziale in ottica di shin ki tai – spirito, mente, corpo –, sostenendo un po’ di fatica e avendo cura di aprire la mente alle novità, difficilmente potremo essere padroni del combattimento, delle lunghezze che ci separano dall’avversario e delle reazioni emotive che esse generano.
La distanza è un’ipotesi, un potenziale, una verità che muta nello spazio e nel tempo.
Allora, che cosa significa distanza?
È l’opportunità di esprimere se stessi, di combattere e vivere nella modalità che più ci rappresenta, sfruttando la vicinanza e la lontananza in nostro favore, ma sempre in relazione al prossimo, che ugualmente vive e interagisce con il mondo e con noi. La distanza è un’ipotesi, un potenziale, una verità che muta nello spazio e nel tempo. Nelle arti marziali è un livello di coraggio, una strategia, uno stile, un sentimento che deve essere sempre abbracciato e interpretato.
Troppo vicino, troppo lontano, troppo tardi, troppo presto.
La distanza è pura dinamica. La distanza è un’emozione.