Una lettura del karate da una prospettiva storica, per ricostruirne l’“albero genealogico”, connettendoci alla storia della JKA e alle origini di Okinawa.
Il mondo del karate tradizionale è dominato dalla visione filosofica leibniziana: ogni “dojo” è una monade, un microcosmo senza porte né finestre, che ruota intorno alla figura del maestro. È lui che trasmette la conoscenza e la maggior parte degli allievi si accontenta della visione del karate che traluce dalle sue spiegazioni. Il ritratto di Funakoshi Gichin appeso al muro, oggetto di attenzione all’inizio e alla fine dell’allenamento, raramente diventa l’occasione per parlare del quadro più ampio dal quale quella particolare palestra ha avuto origine.
… aiutare i miei allievi a ricostruire l’“albero genealogico” del proprio karate, connettendoli alla storia della JKA e alle origini di Okinawa.
Una buona parte dei praticanti ignora l’identità del maestro del maestro, per non parlare della collocazione del dojo nella composita galassia del karate del Paese. Occasionali eccezioni a questa visione unidimensionale della disciplina praticata possono essere date dalla partecipazione agli esami di Dan, o agli stage, o a gare più o meno importanti.
La conoscenza del karate al di fuori della porta del dojo dipende dall’orientamento dell’insegnante e dalla maggiore o minore curiosità degli allievi. Può darsi che l’istruttore, per far “rifiatare” gli allievi tra un kata e l’altro, racconti loro la propria storia personale, o aneddoti sulla vita e sulle imprese dei grandi maestri del passato; come può darsi che i più giovani, a proprio agio nel web, navighino su Internet alla ricerca delle origini del karate e scoprano filmati su altri maestri e altri stili, arrivando alla fondata conclusione che la monade “palestra” appartiene a una totalità complessa e che il karate affonda le proprie radici nei secoli passati e in terre lontane.
A me invece, come forse avrete capito, piace molto guardare il karate da una prospettiva storica e aiutare i miei allievi a ricostruire l’“albero genealogico” del proprio karate, connettendoli alla storia della JKA e alle origini di Okinawa: dopotutto, si tratta di risalire soltanto di due o tre secoli e il risultato è spesso quello di coinvolgerli in una scoperta entusiastica del nostro passato.
Come diceva Bernardo di Chartres “Siamo nani sulle spalle di giganti” e sebbene chi scrive sia un nano alto 1,90 e pesante più di cento chili, i miei maestri e i maestri dei miei maestri hanno spalle abbastanza robuste per sopportare il mio peso.
Come sia nata in me questa passione per la storia del karate, alla quale ho dedicato anche la mia tesina per l’esame di 5° dan, non mi è ben chiaro: ma sono sempre stato amante delle discipline storiche in generale (ho ricostruito in un libro le mie vicende familiari a partire dall’impero austro-ungarico di Maria Teresa) e sono rimasto colpito, una quarantina di anni fa, dalle parole del M° Hiroshi Shirai che, osservando lo yokogeri di una mia allieva, le aveva detto: “X è nipotina di Capuana”, alludendo al fatto che aveva imparato quel modo particolare (imperfetto) di calciare da me e che io, a mia volta, lo avevo “ereditato” dal mio maestro di allora, per l’appunto il M° Rosario Capuana il quale, sia detto qui per chiarezza, pur con i suoi limiti di scioltezza articolare, lo eseguiva molto meglio di me.
Questi grandi maestri della JKA formatisi negli anni 50 e 60 mostravano tutti l’imprinting (solo in parte omologatore) del M° Nakayama.
Nel nostro modo di fare karate, con un po’ di attenzione e di studio della materia, si può riconoscere l’influenza di coloro che ci hanno preceduti nella via (questo è il senso della parola sensei).
Proviamo a fare questa prova con due giovani maestri che sono stati entrambi ottimi agonisti: Mirko Saffiotti e Roberto Mariani [in foto ndr]. Entrambi sono stati atleti della Nazionale, hanno partecipato a gare importanti e si sono spesso allenati assieme. Eppure, i loro kata sono visibilmente diversi, un po’ più tecnici quelli del secondo, un po’ più legati all’applicazione nel combattimento quelli del primo. Può essere questione di temperamento, come può essere l’influsso dei loro primi insegnanti: i Maestri Alessandro Ferrari e Claudio Ceruti per Mirko, i Maestri Dario Marchini e Carlo Fugazza per Roberto.
In ogni caso le posizioni, la ricerca della velocità, della potenza e della stabilità sono caratteristiche della scuola del Maestro Shirai: il Maestro Enoeda aveva posizioni più lunghe e tecniche di calcio più spettacolari, gli allievi del Maestro Ochi mettevano nei loro kata meno tecnica e più interpretazione.
Questi grandi maestri della JKA formatisi negli anni 50 e 60 mostravano tutti l’imprinting (solo in parte omologatore) del Maestro Nakayama, a cui va il merito di aver messo in piedi una scuola di istruttori che ha insegnato in tutto il mondo lo stesso stile con lo stesso metodo.
A questa standardizzazione si è in parte sottratto il Maestro Kase che, pur fedele alle sue origini e membro dello stesso “clan”, ha creato un proprio “ryu” che sarebbe semplicistico ridurre alla preferenza per fudodachi e per le tecniche con la mano aperta.
Oggigiorno un allievo del M° Kase come Jean-Pierre Lavorato e un allievo del M° Enoeda come Terry O’Neill praticano due varianti distinte dello stile Shotokan.
Per trovare l’elemento comune che lega entrambi agli allievi del M° Kanazawa e a quelli del M° Shirai o del M° Ochi, dobbiamo risalire un altro gradino dell’evoluzione e richiamarci all’opera del M° Yoshitaka Funakoshi. Il suo influsso è evidente confrontando le fotografie dei primi libri del padre con quelle dell’ultima edizione di Karate-do Kyohan: le posizioni prima erano più alte e alcuni calci non esistevano ancora o non avevano un nome specifico e una metodologia di allenamento sistematica.
Quando pratichiamo i kihon o le varie forme di kumite prestabilito, dovremmo sapere che questa pratica è nata negli anni 30 all’università Takushoku.
Quando pratichiamo i kihon o le varie forme di kumite prestabilito, dovremmo sapere che questa pratica è nata negli anni 30 all’università Takushoku.
Prima ancora, ci sono solo i kata, o meglio i loro nomi, che ci rimandano al Maestro Itosu e ai suoi insegnanti di Okinawa. Nei Pinan, inventati o rielaborati da Itosu per l’insegnamento del karate nelle scuole, l’unico calcio è il maegeri, la posizione dominante è neko-ashi dachi, che è ora marginale nello stile Shotokan.
Di Sokon “Bushi” Matsumura, maestro di Itosu, ci è rimasto un kata, “Matsumura no bassai”, e soprattutto la pratica dell’allenamento al makiwara che, secondo Kenji Tokitsu, è nata dalla pratica detta “tategi uchi” della scuola di spada Jigen-ryu: colpire un tronco d’albero con un robusto bastone, 3.000 colpi al mattino, 8.000 colpi alla sera.
Questo rapido excursus non ha certo esaurito i nostri debiti verso il passato, ma può darci almeno un’idea della responsabilità che pesa sulle nostre spalle: disperderemo questo patrimonio di idee e di esperienze marziali per trasformare interamente il karate in un gioco o uno sport, o cercheremo a nostra volta di tramandarle ai nostri allievi, in modo che “la nobile arte della mano nuda dei mari del Sud” (citando a memoria Funakoshi) non vada perduta?