“Sentirsi” 1° dan è avere la cintura nera nella mente e la cintura bianca nello spirito.
“Gli esseri umani non nascono sempre il giorno in cui le loro madri li danno alla luce, ma la vita li costringe ancora molte volte a partorirsi da Sé”.
(Gabriel Garcia Marquez)
«Oss a tutti, ho finalmente raggiunto l’obiettivo della cintura nera. Ho provato una gioia e un’emozione indescrivibili. Ma anche una paura del domani senza obiettivi reali, ma ideali con una spinta in più; sapere che il karate non è più fuori di te, ma sei tu il karate e la cintura è un simbolo di amore e dedizione… e pianto: il tuo Sé con in braccio il tuo Io!»
Gli studenti moderni di karate mostrano il loro grado di esperienza grazie a un sistema gerarchico basato sui differenti colori delle cinture, chiamate obi. Man mano che gli studenti avanzano di livello, abbandonano la cintura precedente per una con un colore diverso per manifestare i propri progressi.
Ogni incontro fondante della vita, capace di trasformare il proprio modo di osservare e/o vedere e di sentire/si, offre un tessuto di aspettative profonde, in parte consapevoli e realistiche, come l’obiettivo “di quel colore nero”, in parte emotive, attraverso la ridefinizione del proprio modo di “stare” nelle cose e di sentire il proprio corpo in connessione con la mente, come un processo di ricollocazione del sentire con il corpo e pensare con la mente (secondo cervello).
La cintura, lucente o sbiadita, nuova o invecchiata, indica il sacrificio, la dedizione e la passione: visibile agli occhi, ruvida al tatto…
La cintura nera simbolo di graduazione, ultimo step delle cinture colorate rappresenta la maturità psico-fisica che il praticante acquisisce con dedizione e sacrificio in un luogo fisico, nel quale orari e lezioni scandiscono il movimento del motore corporeo, fino a diventare un orologio interno con ritmi e cadenze, sincronizzate da un meccanismo in cui il karateka attiva il corpo annullando i pensieri, fino a ridefinire se stesso nella piena consapevolezza della sua alterità (se stesso con qualcosa in più).
La cintura, sia essa di cotone o di seta, lucente o sbiadita, nuova o invecchiata, indica il sacrificio, la dedizione e la passione: visibile agli occhi, ruvida al tatto, posizionata con un gesto rituale sul bacino, diventa parte integrante di un nuovo modo di essere e di sentire.
Con il raggiungimento del 1° Dan, se avvenuto nei tempi congrui e con la giusta maturità, si verifica una sorta di decentramento dell’osservazione (dall’esterno all’interno di se stessi) che combina e mette in crisi sia l’assetto fisiologico (intriso di un bagaglio ricco di tecniche raccolto fino a quel momento) sia mentale, imponendo a se stessi la perseveranza per continuare a seguire la Via, responsabilità che diventa quasi esclusivamente personale e non più “affidata” principalmente al maestro e alle sue capacità sia tecniche sia relazionali.
È quando il karateka inizia a sentirsi 1°dan che le cose si fanno più complicate ma anche più belle, i limiti e le risorse diventano nuovamente terreni da esplorare, reali e ideali, in cui le emozioni con le loro sfumature colorano il nero di pigmenti sottrattivi dei colori di cintura che l’hanno preceduta: sentirsi 1° Dan, in buona sostanza, è avere la cintura nera nella mente e la cintura bianca nello spirito.
Si innesca, dunque, una dicotomia difficile da gestire, a cui si unisce la responsabilità di sostenere il “peso” di quel colore: ma in che modo il praticante riesce a unire gli angoli di questo “triangolo” e sentirsi in grado di perseverare nella Via? (Punto di vista derivante dall’approccio della psicoterapia sistemico relazionale).
Il karateka si approccia al dojo attraverso una scelta vocazionale e vi resta quando il contatto con il proprio modo di essere in relazione con se stessi e col gruppo diventa privo di filtri ed esente da giudizi, quando riesce ad accettare i propri limiti, li accoglie e non li nega. Il candidato alla formazione di karateka ha il cuore ricco dell’impalpabile speranza di provare una sensazione di equilibrio in se stesso e con il proprio modo di relazionarsi, con e senza l’altro.
“Quando la porta del dojo si apre e avviene l’incontro tra il maestro e allievo, inizia una storia complessa in cui gli esiti, come in ogni incontro e/o scontro, non sono del tutto prevedibili.”
Pensiamo ora alla famiglia come a un grande organismo che nasce, si evolve, muore e che, quindi, continuamente cambia. La vita dell’organismo famiglia è scandita da eventi specifici (sia positivi sia negativi: nascite, trasferimenti, adozioni, matrimoni, morti, malattie…) che sempre minano l’equilibrio vigente al momento, stimolando verso una riorganizzazione flessibile, in linea con le mutate situazioni. La cosa più incredibile è che la capacità di far fronte in modo costruttivo a queste transizioni non riguarda solo quell’organismo famiglia, ma il singolo individuo in continua trasformazione. Nel sistema dojo/famiglia molto dipende dal fare le cose giuste nei tempi giusti, dal trovare il giusto compromesso tra il desiderio di andare avanti e la necessità di consolidare ciò che si conosce: effettuare i cosiddetti “passaggi di cintura” prematuramente, quando il praticante non ha ancora ultimato il proprio processo di individuazione (il corpo assorbe le tecniche prima che la mente sia pronta a recepirlo), è come negarsi e negargli il bisogno di appartenenza a un sistema che lo ha cresciuto e ha contribuito a caratterizzare la sua unicità.
Passare a una fase successiva di colore senza essere pronto a svincolarsi e a ultimare il proprio processo di individuazione, quando il corpo assorbe la tecnica e la mente non è ancora in grado di consolidarlo nel ricordo, conduce il praticante a una confusione che può portarlo a connotarlo negativamente come causa primaria di sofferenza e malessere, creando, a seconda della struttura di personalità, un vincolo che lega la sua pratica alla fedeltà e alla lealtà verso il maestro, spostando il focus interno nel focus proiettivo (…sento ciò che sente il maestro), con l’acquisizione di un legame di dipendenza, disfunzionale alla sua crescita.
La perseveranza nel seguire la Via, dunque, risiede nella maturità costruita nel tempo sotto la guida attenta e onesta del maestro, che mostra la Via e lascia che l’allievo segua la propria senza abbandonarlo.
Tuttavia si tratta di un evento, indipendentemente dalla sua connotazione positiva o negativa, che è critico, perché implica sempre una perdita: la perdita di una modalità di legame precedente, di un ruolo, di una rappresentazione di sé e dell’altro. Come ogni colore che esprime metaforicamente una crescita interna, senza mai trascurare il rapporto tra sé e gli altri.
La perseveranza nel seguire la Via, dunque, risiede nella maturità costruita nel tempo sotto la guida attenta e onesta del maestro, che mostra la Via e lascia che l’allievo segua la propria senza abbandonarlo; dalla capacità dell’allievo di distinguere se stesso dal maestro, di essergli riconoscente, ma non asservito; dalla capacità di sopportarne il peso e la responsabilità; nella forza di ricordare sempre da dove si è partiti.
Un Karate “aperto” che funziona in relazione al suo contesto socioculturale e si evolve durante il ciclo di vita, riflettendo nella cintura che segue la persona nel suo fluire. Un modo di essere che si adatta e si radica come un albero con radici forti che, pur colpito dal vento, non si sradica.