Per me fu folgorante l’incontro con i Maestri Hiroshi Shirai e Taiji Kase.
Il M° Riccardo Frare (02.11.70) 5° dan Shotokan Fikta, nel 2014 con plauso personale di Shirai Sensei, e 5° dan federale Fijlkam, nel 2016 di fronte alla commissione presieduta dal prof. Aschieri.
Svolge la professione di insegnante di Karate.
Ha frequentato l’ISEF e pratica Karatedo dal 1985, iniziato con il M° Paolo Garzotti e proseguito con il M° Gianfranco Meneghini.
Ha praticato con i più importanti Maestri giapponesi e riconosce come suoi Maestri guida, sul piano tecnico e dei principi, il M° Shirai e il M° Kase.
Ma é nell’“incontro” con il M° Papaji che va a coronare tutti i suoi anni di pratica, riconoscendo il significato profondo che trascende la tecnica.
Ricercatore spirituale da sempre, frequenta costantemente gruppi di meditazione e di studio Advaita Vedanta e Zen. È in formazione continua presso il centro polifunzionale Don Calabria di Verona dal 1993.
Diventa cintura nera nel 1991 ed è atleta della Nazionale italiana dal 1994 al 1998. Partecipa ed è finalista in tre campionati europei.
Nel 1994 in Polonia è vice campione europeo ESKA nel Kata a Squadre (Ghizzardi-Carazza-Frare).
Nel 1995 diviene Istruttore federale FIKTA e tre anni dopo crea il KI DOJO Verona. Nel 2008 diventa Maestro Federale Fikta e docente del Csak Kata (gruppo agonistico del Veneto) fino a oggi. Fa parte della Commissione tecnica della regione Veneto dal 2008. Dal 2016 è Maestro federale Fijlkam.
Nel 2011 si diploma counselor a indirizzo somato-relazionale.
Lo studio del kata, a mio parere è una bella occasione di autoconoscenza, perché lavora su tutti gli aspetti dell’uomo.
La rivista “KarateDo”, ancora nella versione stampata, ha pubblicato una serie di interessanti articoli del Maestro Frare, scritti assieme all’allievo Thomas Rossetto e riproposti anche nel proprio sito.
Maestro, ci racconta perché e quando ha iniziato a praticare karate?
Lì per lì sembrava fosse per difesa personale e per diventare più forte, ma fondamentalmente ho avuto la necessità di conoscermi di più. Chiaramente è con il senno di poi che faccio questa lettura, in realtà è stato prettamente un percorso di autoconoscenza e la vera forza era tanto nel conoscersi non tanto nel diventar forti sul piano prettamente fisico o della performance.
Ho iniziato abbastanza avanti con gli anni, ne avevo quattordici, però è stato amore a prima vista, da quel momento non c’è stata alcuna interruzione di nessun genere. Poco dopo ho sentito che la pratica del karate sarebbe diventata parte della mia vita, al punto di diventare la mia professione.
Ha avuto la fortuna di frequentare molti grandi Maestri giapponesi, ma non solo, quali le sono rimasti di più nei ricordi e perché?
Sicuramente, nell’ambito del karate, i Maestri Hiroshi Shirai e Taiji Kase e ricordo la prima volta che li incontrai: fu folgorante per me! Con il M° Shirai ho avuto proprio delle… vabbè… delle sensazioni forti sul piano energetico, ero rimasto incantato di fronte a tanta energia e al suo carisma, e fu la stessa cosa con il M° Kase, ma in maniera diversa. Sento che il M° Shirai mi ha dato una forza legata alla disciplina, alla forza interiore, invece, il M° Kase, la gioia nella pratica e l’amore nella pratica. Sì,queste due figure hanno sicuramente influenzato il mio modo di vedere le cose.
Poi ci sono i Maestri di altre discipline, perché ho fatto un percorso su altre cose, legate alla meditazione piuttosto che ad aspetti della psicologia somatica.
Quali sono state la sua più grande delusione e la sua più grande gioia nel karate?
[Risata del Maestro] Ne parlavo proprio poco fa!
Allora, la mia più grande delusione in realtà si è rivelata essere una disillusione. Nell’immediato era percepita come una delusione, ma col tempo si è rivelata quasi utile, perché ha tolto un’illusione.
La delusione/disillusione è stato il fatto di essermi identificato col sistema. Io credevo ciecamente nel suo sistema “politico-sociale” e davo tutto quello che potevo dare, però ho avuto delle delusioni. In realtà adesso ho la consapevolezza che riguardo al sistema sociale, politico, federale, la Fikta si sta orientando verso altre cose ed è giusto che sia così per una federazione, però non è karate. Non ho ricevuto delusioni dal karate, ho ricevuto delusione dal sistema, cosa che però è alquanto inevitabile nel momento in cui mi identifico in quello, credo in esso.
È invece stata una disillusione perché, togliendo potere a quella dimensione, ho riscoperto/scoperto la grande gioia della pratica del karate in sé che è trasversale al sistema sociale.
Ho valorizzato quella parte, l’ho ripescata, non ho detto chiudo. Io sono ancora dentro alla Fikta, insomma, non sono in un eremo a fare karate!
Ho sempre sognato di poter preparare degli atleti, degli agonisti, e questa è stata una mia gioia. Ricordo che avevo dei bambini di circa 5-6 anni e pensavo a quanto bello sarebbe stato se fossero arrivati in Nazionale, il mio sogno era portarne almeno uno e così ho cominciato a lavorare con quei ragazzi. E la mia grande gioia è stata quando Martina Tommasi, l’atleta di punta e “storica” del nostro movimento, è riuscita a fare il suo primo europeo a Casale Monferrato, mi sembra di kata individuale e a squadre, dove ha vinto. Insomma, riuscire a vedere questi bambini di cinque anni che poi riescono ad arrivare in Nazionale è una grande gioia!
Il kata … non è solo un’esecuzione ginnica. Lì dentro c’è stato un combattimento in cui c’è la tematica della vita e della morte, perciò dico che c’è in ballo un dramma.
Quando era un praticante prediligeva già il kata? Cosa le piace dello studio del kata e cosa può significare oggi per un karateka?
Il karate mi piaceva e mi piace tuttora a tutto tondo, mi piace vedere il karate come completezza. Poi ho delle caratteristiche e delle capacità fisiche innate, intendo che non sono bravo, ma semplicemente che la genetica mi ha dato delle fortune e riuscivo meglio a fare kata, perché ero “sciolto”, più che coordinato, e perché avevo quel tipo di esplosività richiesta nelle competizioni di kata. Ecco che allora mi sono indirizzato lì, ma è stato un po’ il destino, non ho proprio scelto tra kata o kumite, perché in realtà mi piaceva tutto.
Per quanto riguarda lo studio del kata, a mio parere è una bella occasione di autoconoscenza, perché lavora su tutti gli aspetti dell’uomo. Lavora sull’aspetto fisico, mi sembra evidente, però lavora molto anche sugli aspetti emozionali, legati all’autocontrollo, legati a gestire le proprie energie interne. Lavora sulla componente affettiva, perché nel momento in cui faccio un kata devo come rivivere un “dramma” fondamentalmente, perché il kata è un combattimento immaginario, perciò non è solo un’esecuzione ginnica. Lì dentro c’è stato un combattimento in cui c’è la tematica della vita e della morte, perciò dico che c’è in ballo un dramma, c’è in ballo una questione di tipo affettivo dove il cuore è coinvolto.
Quando un atleta esegue bene un kata, non è solo esecuzione che deve trasmettere, ma trasmette quando vive ciò che fa e questa è una componente di tipo affettiva, cioè la capacità di relazionarsi con quello che si fa, con sé e con gli altri.
Poi, non escludo la componente di tipo, fra virgolette, “spirituale”. Forse è un po’ inflazionata, ma potremmo chiamarla, energetica o trascendente, che è tipica di tutti gli atleti. Anche in chi fa corsa, per esempio le maratone, c’è una trance agonistica, così viene chiamata negli esecutori di kata, ma nessuno ne parla. In realtà accade abbastanza spesso questa trance agonistica, che è una forma di estasi, una forma di connessione, dove non c’è più una parte, ma si arriva a una sorta di totalità che si esprime attraverso il kime, attraverso l’energia.
L’esecuzione di un buon kata non deve “rapire” gli esperti, ma chi non ha le competenze, perché vuol dire che ha interagito su dei piani che non sono soggetti al controllo e questo, alla fine, è la grande cosa che è il karate! Perché il kata ne è un po’ la parte manifesta, ma il karate possiede del trascendente, ha della poesia diciamo così. Come quando leggi una poesia ed esclami “Wow!”.
Da quando lei era un agonista a oggi, è cambiato qualcosa nella preparazione degli allievi?
Beh, sono cambiati i tempi e le conoscenze, ed è cambiata un po’ la visione delle cose. Una volta c’era meno preparazione scientifica, cosa ora molto presente, e secondo me si sposterà sempre di più verso quel tipo di preparazione, più legata ai modelli di performance – sempre parlando di agonismo – e di preparazione atletica, questo è inevitabile. Una volta tutto era molto più istintivo, tutto basato su quello che si era sentito dire, anche perché i mezzi erano quello che erano, si consultavano dei libri, ora invece si può spaziare molto di più. Quello che però è maggiormente cambiato è la componente relazionale con le persone, perché se uno perpetuasse il vecchio modello di relazione, ora non funzionerebbe più.
Per la mia esperienza di insegnante, ho sicuramente immesso degli aspetti scientifici, ma secondo me il lavoro grosso da farsi non è quello, ma come ci si relaziona con gli allievi.
Il rapporto diretto e quotidiano che ho avuto con il mio maestro e il rapporto che io ho con i miei allievi ora, non è cambiato tanto nella conoscenza, ma soprattutto nella capacità di relazione, che se mi relazionassi con i miei allievi come faceva il mio maestro non funzionerebbe.
L’esecuzione di un buon kata non deve “rapire” gli esperti, ma chi non ha le competenze.
La sua scuola forma atleti di alto livello con continuità e assiduità (molti fanno parte della Nazionale FIKTA)… vorremmo sapere se ha un “segreto”. Ci può dire qual è il suo approccio all’agonista?
Io non ho un segreto, faccio veramente fatica a dire “Ah, questa è la verità!”, perché non c’è una verità e non c’è un segreto. Posso pensare che, per quello che è stato il successo di questi ragazzi, il “segreto” – tra molte virgolette! – possa essere la capacità dell’insegnante di una messa in gioco: è il maestro stesso che deve lavorare su di sé.
Mi spiego meglio. In realtà non c’è un insegnante e non c’è un allievo, distinti in maniera netta, non sono due compartimenti stagni, ma sono due situazioni, due ruoli, dove “sembra” che ci sia qualcuno che sta insegnando e dove “sembra” ci sia qualcuno che sta imparando, ma in realtà anche il maestro stesso, finché insegna, sta imparando e l’allievo, finché impara, sta insegnando. Perciò direi che è questo il segreto: è la relazione. E questo tipo di relazione non è casuale, non è amicizia, ma è basata sul carisma. Un insegnante carismatico sa che non c’è separazione e incontra veramente l’altro (l’allievo).
Possiamo aggiungere che il segreto è anche il carisma, che non si può apprendere sui libri. Ognuno è carismatico, ha la propria peculiarità nel momento in cui si conosce, ma è un percorso che deve fare con se stesso.
Il carisma è essere se stessi (non ciò che si pensa di essere), per riuscire a essere ciò che si è, la parte più pura, mi viene da dire onestà, sincerità. Il Dojokun, se lo leggiamo, mira al carisma, non mira a dei dogmi o alla morale (rispetto, sincerità non è moralismo è proprio conoscere se stessi).
Per allenare un atleta o una squadra di kata ci vogliono costanza, dedizione, tenacia, concentrazione e tanto, tanto, allenamento. Come riesce a motivare e a stimolare i giovani a venire in palestra? Che tipo di rapporto bisogna creare, secondo lei fra Maestro e atleta?
Sicuramente un rapporto di sincerità, di rispetto e di stima, un rapporto in primis umano, niente altro solo ciò che è. Dopo, ognuno gioca al proprio ruolo e si prende le proprie responsabilità: io, come allievo, devo essere un buon allievo e prendermi le mie responsabilità, parimenti, io maestro, dovrò essere un buon maestro.
Il maestro avendo lavorato su di sé e avendo avuto a suo tempo, o tuttora, un maestro che lo aiuta a lavorare su se stesso, deve continuare a perpetuare questo “gioco delle parti” affinché la trasmissione del karate possa andare avanti con i giusti valori, perché egli è semplicemente uno strumento.
Se il maestro è carismatico, riesce a far fare agli allievi anche taglio e cucito… E loro lo fanno! Non è un’obbedienza cieca, ma è sperimentare. Io, maestro, ti do le indicazioni, poi rimando al mittente, e tu allievo devi provare a vedere se è vero. Per questo, io maestro devo essere tanto carismatico, per farmi ascoltare devo essere credibile. L’attendibilità ce l’ho non solo per quello che dico, ma per come mi muovo, per come dimostro e per come comunico. Il maestro è una cosa antica, una figura che c’è sempre stata dalla notte dei tempi, ma non è riferita solo alla conoscenza, ma ad amore e conoscenza.
Che cosa, invece, non dovrebbe mai fare un maestro nei confronti dell’atleta?
Non dovrebbe erigere un muro e assolutamente mai, ma ahimè succede, mai attuare una proiezione narcisistica sull’allievo. Cioè manipolarlo e godere del fatto che l’allievo, per esempio, abbia vinto, ma non è il maestro che ha vinto! Sovrainvestire su una persona in modo abnorme è molto pericoloso. L’allievo fa quello che dice il maestro, si fida, però se il maestro non è cosciente delle proprie proiezioni, rischia di creare un rapporto che non è sincero.
Pensa che i nuovi accordi tra FIKTA e FIJLKAM potranno incidere anche sull’insegnamento del kata?
Secondo me sì. È inevitabile che tale accordo porti pian piano a una “olimpizzazione” del kata, cioè che diventi più “televisivo”, più legato alla performance atletica, lo vedo proprio un percorso inesorabile ed è inutile opporsi a questo. Però credo anche che ci sarà un contro-movimento più legato alla pratica del kata, più legato allo stile.
Onestamente, non so cosa possa succedere, però penso che il kata olimpico sia un kata “ibrido”, che non valorizza le peculiarità degli stili, infatti, fanno le competizioni interstile. Facendo una competizione interstile sarà importante valutare solo la componenti trasversali, che sono il corpo e la fisicità piuttosto che la velocità e la performance.
L’altra cosa, che in qualche modo già esiste, sono i campionati, le competizioni dedicate allo stile, come Eska, Jka, Jks… Certamente questi circuiti prenderanno proporzionalmente forza, perché c’è la necessità di portar avanti la parte olimpionica, ma sicuramente anche lo stile, una peculiarità tecnica. I diversi stili descrivono combattimenti di un certo tipo, non si può uniformare tutto in uno stile, perché rappresentano situazioni diverse di combattimento.
Il Dojokun, se lo leggiamo, mira al carisma, non mira a dei dogmi o alla morale.
Che significato ha il karate-do per lei?
Per me è questo preciso momento. [Ride] È questo istante, per me il karate è questo, cogliere e celebrare l’istante, non lo lego all’entrata e all’uscita dal dojo, lo lego semplicemente all’essere dove si è. Il karate è una grande cosa, comprende molte componenti, quella fisica: mi sento bene; quella emozionale: riuscire a gestire le proprie emozioni sul piano affettivo. Per me il karate è tutto e niente di specifico, quindi, per me il karate è ora.
Nella sua sostanziosa formazione personale vi sono anche studi di counseling somato-relazionale e di bioenergetica, ritiene che abbiano arricchito il suo bagaglio “marziale”? Se sì, come nel concreto?
Assolutamente sì, perché avere una formazione di tipo psicologico corporeo è una formazione legata alla psicologia somatica. Il karate si sviluppa per forza attraverso il corpo, non esiste un karate che non passi attraverso il corpo, altrimenti diventerebbe un’altra cosa… meditazione, trascendenza. Il karate si manifesta attraverso il corpo. Sapendo che è attraverso il corpo, la formazione psicosomatica mi ha dato tanti strumenti di lettura, sia su di me sia sugli allievi.
In che senso concreto? Ho gli strumenti per poter capire dove possa esserci un blocco nel corpo dove non scorre bene l’energia, per esempio il blocco nel diaframma… molti non riescono a respirare. Nel concreto questo tipo di studi mi ha permesso di utilizzare degli esercizi per andare a integrare la componente tecnica del karate, oppure utilizzare delle tecniche di kihon per andare a sbloccare quelle determinate tensioni che possono essere legate allo stress quotidiano, quindi, bisogna conoscere le modalità, oppure su tensioni più antiche, più profonde, magari legate a delle “ferite”.
È appena rientrato da uno stage in Sri Lanka in qualità di insegnante, fa molti stage all’estero? Com’è il karate fuori dall’Italia e cosa la colpisce?
Amo sempre il viaggio legato al karate.
L’esperienza in Sri Lanka è stata molto intensa e molto bella, è un karate autodidatta, perché lì non hanno soldi e mancano maestri stabili, perciò mescolano un po’ di tutto e in qualche modo si arrabattano. In un incontro che ho avuto con loro, ho cercato di far capire l’importanza che scelgano uno stile, perché fanno un po’ di tutto, però senza andare dentro alle cose, e sembrerebbe che con lo Shotokan abbiano capito un po’ le scelte da fare. Ritornerò lì a marzo, abbiamo quindi attuato una sorta di comunicazione, di dialogo.
Mi piace molto il karate nel terzo mondo, sono stato in Giappone, ho fatto altri viaggi, ma onestamente mi ha colpito di più il karate in Sri Lanka, perché vedo “fame” di imparare e voglia di fare, cosa che non ho visto nei paesi “civilizzati”, occidentali, e questa cosa mi piace molto, perché il karate fa tanto bene.
Mi piacerebbe andare anche in Sudamerica, in Africa, perché onestamente mi piacciono di più questo tipo di esperienze.
Secondo lei, quali “valori aggiunti” ha oggi il karate del M° Shirai, rispetto ad altre scuole?
Onestamente, più che la scuola, io tengo in considerazione il Maestro Shirai. Io faccio veramente fatica a collocare il karate in una “scuola”, nel concetto di scuola. Come dicevo prima, mi sono disilluso, in qualche modo anche risvegliato al fatto che il karate non può essere relegato in una scuola, non può essere relegato in uno stile (anche se utilizzo quello stile, quella scuola, non è che devo cancellare la scuola, cancellare il dojo, la federazione). Essi devono essere al servizio del karate non il contrario, per cui io cancellerei la parola scuola. Io guardo al Maestro Shirai, lui con il suo carisma… un potere incredibile, un potere di fare veramente del bene come ha fatto. Perciò, la peculiarità del maestro, del carisma del maestro, è aver fatto conoscere a tutti noi questa possibilità, questa meraviglia, quella di poter praticare, questo è. Però non lo “racchiuderei”, perché nel momento in cui lo si chiude perde la sua funzione, perde lo scopo. Credo che il Maestro Shirai quando ha scelto di stare in Italia non l’abbia fatto per la “scuola” del Maestro Shirai. Per me non deve esserci una scuola, deve esserci il karate come obiettivo. Nella scala delle priorità, in primo luogo deve esserci il karate e in secondo luogo, sicuramente devono esserci anche le componenti istituzionali, che hanno funzioni organizzative, divulgative. Questa seconda componente deve esserci, ma non una “scuola”, secondo me non è uno stile quello che ha fatto il Maestro. Spero di essermi spiegato e di non essere frainteso, ma anche quando il Maestro parla, come nella vostra recente video-intervista che avete pubblicato, lui non dice mai la “mia scuola”, non l’ha mai detto, non dice il “mio stile”, mai. Chiaramente è un mio pensiero, ma, secondo me, il messaggio del Maestro è trasversale a se stesso.
Io guardo al Maestro Shirai, lui con il suo carisma… un potere incredibile, un potere di fare veramente del bene come ha fatto.
Come immagina il suo futuro e quali progetti ha?
Innanzitutto quello di viaggiare con il karate, se il karate vuole io mi metto al servizio, soprattutto per i “bisognosi”. Io non vorrei farlo per lucro, lo vorrei fare per condividere questa possibilità, finché ho la forza e l’energia – perché sono ancora in forma, anzi sono più in forma ora di dieci anni fa – posso “dimostrare”, perché nel karate devi far vedere, non puoi raccontarlo e poi chissà.
Infine, vorrei farvi i complimenti, perché in qualche modo siamo tutti in missione mi viene da dire e percepisco anche nel vostro Dharma, si chiama cosi, un messaggio apparentemente diverso (ma a ben guardare non lo è) e voi attraverso, la scrittura e le immagini, esprimete sempre karate.