Dal wadoryu a un innovativo metodo per la sicurezza del personale sanitario e dei parenti dei pazienti psichiatrici.
Alberto Barbieri ha tratti e piglio da moschettiere, ma non combatte per salvare una regina… La sua missione è diffondere la conoscenza dell’arte e degli strumenti dell’autodifesa, a vantaggio soprattutto di chi è più debole fisicamente e meno attrezzato mentalmente in presenza di situazioni di pericolo.
All’interno di un percorso ricco e complesso che ha incluso anche il karate, il nostro interlocutore ha sviluppato un sistema che si occupa della sicurezza di chi (personale sanitario o familiari) è costretto a interagire in contesti specifici: con individui affetti da malattie psichiatriche e portatori di tendenze aggressive. Elaborando un mix di esperienze concrete e di studio teorico, il Maestro Barbieri ha raggiunto un risultato unico, testimoniato dagli ottimi riscontri dei frequentatori dei suoi corsi sulla materia.
Lasciamo la parola direttamente a lui e iniziamo subito con una sorpresa, infatti, questa storia parte col sollevamento pesi…
Del karate Wado Ryu apprezzo il fatto che le posizioni e i movimenti sono il più possibili naturali, non danneggiano le articolazioni e in generale il fisico non si logora.
Da piccolo non ero realmente uno sportivo. Tiravo giusto 4 calci a un pallone, come tutti i bambini all’epoca, nel campetto dell’oratorio. Quando sono cresciuto, ispecie con l’ingresso all’Università, ho sentito l’esigenza di costruire il mio fisico, un po’ come tanti ragazzi di allora. Era anche un modo per accrescere l’autostima. Ho cominciato a frequentare la Polisportiva Bentegodi che fra le numerose attività offriva il sollevamento pesi. Mi è piaciuto subito, anche se è uno sport povero, che dà poche soddisfazioni. Però, è “roba da veri duri” e ha pure un’utilità nella vita quotidiana, perché t’insegna a sollevare i pesi, appunto, (valigie, scatoloni ecc.) o a compiere altri sforzi fisici, salvandoti la schiena, senza romperti le ossa.
Quando sei arrivato al karate?
È stata una casualità, se vogliamo. Prima però è necessario spiegare un altro passaggio. Mi è capitato di vedere un manifesto, sempre a Verona, che pubblicizzava una palestra privata dove insegnavano il metodo Yoseikan Budo. È un misto moderno di arti marziali, volto alla difesa personale, che funziona magnificamente. Ero già piazzato piuttosto bene grazie al sollevamento pesi, anche se non avevo i muscoli scolpiti da body builder, ed ero molto determinato. Quando mi presentai, mi accettarono come allievo. Ero convinto di essere abile, forte, che avrei imparato in men che non si dica ciò che mi interessava. Invece, dopo 3 o 4 lezioni l’insegnante mi fece combattere contro una ragazza giovane, esile, che era cintura marrone e sicuramente più rodata di me su quel metodo. Bene, vestiti di tutto punto e con le nostre protezioni addosso, abbiamo cominciato e… in un minuto e mezzo non l’ho sfiorata neanche una volta! Lei in compenso mi ha buttato per terra un sacco di volte. Allora ho capito come mai il maestro le aveva suggerito di andarci piano, con me. Tutte le mie sicurezze si sono sbriciolate! È stato un colossale bagno di umiltà. Ho compreso che la forza fisica da sola non basta. Che non bisogna mai, mai sottovalutare chi si ha di fronte. Che è fondamentale imparare bene le tecniche. Caspita, un evento tutto sommato banale mi ha aperto un mondo nuovo e che mi piaceva… Così ho continuato.
Anni di pratica e di teoria in cui hai sperimentato anche l’utilizzo delle armi tradizionali giapponesi – coltello, spada di legno, nunchaku ecc. – e poi c’è l’approdo al karate, precisamente allo stile Wado Ryu.
Sì, il mio maestro aveva mollato l’attività e mi sono ritrovato a praticare karate Wado Ryu con il Maestro Suzuki. Uno che faceva bene il suo mestiere, mantenendo coerenza ed etica. Per dire, durante i corsi e gli stage egli non trascurava mai gli ultimi arrivati, le cinture bianche, per concentrarsi solo su chi era più preparato. Tutti erano egualmente importanti per lui, non concepiva il karate come un business.
Dopo la morte di Otsuka, fondatore dello stile, che fu un grande innovatore per essere riuscito a inserire nel karate parecchie tecniche tipiche del Ju Jitsu – in effetti il Wado Ryu è quasi più uno stile di Ju Jitsu – la sua scuola si spaccò in due correnti. Una aveva a capo suo figlio, l’erede designato; il discepolo prediletto, appunto Suzuki, capitanava il gruppo Wado Ryu International che voleva mantenere viva la tradizione ed era più operativo, più votato al combattimento.
Del karate Wado Ryu apprezzo il fatto che le posizioni e i movimenti sono il più possibili naturali, non danneggiano le articolazioni e in generale il fisico non si logora. In più, è altamente strategico, richiede un’applicazione intelligente, a seconda di chi è l’ avversario. Non è così rigido come altri stili o altre discipline, che secondo me rispondono solo alla logica dell’attacco-difesa. E trovo che i suoi kata, per quanto non propriamente spettacolari nella maggioranza dei casi, siano un ottimo punto di partenza per costruire buone basi di difesa personale.
Passano gli anni, c’è un altro cambiamento…
Un’evoluzione naturale direi. Sono passato al Ju Jitsu, dopo aver smesso la pratica delle arti marziali per qualche anno. Volevo tornare, non si può star lontani troppo a lungo da qualcosa di cui si è appassionati, ma volevo anche provare qualcosa di diverso, pur se attinente all’autodifesa.
Finalmente, a partire dal 2008, incominci a realizzare concretamente la tua visione, proponendo corsi di autodifesa.
In palestra, dove collaboro ora con mio fratello e mio figlio, e sii trattava di corsi di difesa personale indirizzati a civili, che continuo ancora a tenere.
Qui accade quello che non ti aspetti: l’avvicinamento alle problematiche della malattia mentale.
Già, per puro caso, quando venne una signora per una prova, senza qualificarsi, e poi scoprii che è caposala nel reparto di Psichiatria, a Verona.
Fu lei a dirmi che quello che faccio potrebbe essere molto utile se calato in una realtà ospedaliera. Io non ci avevo mai pensato, ma non mi sono sottratto al confronto. Non sono un delinquente, non aggredisco; col servizio militare in Polizia avevo appreso alcune modalità di gestione delle manifestazioni pubbliche, in maniera ‘forte’, ma al tempo stesso ‘morbida’… quindi, ci provo. Lavoro con altri allievi di estrazione medica e infermieristica; studio le normative; metto in piedi un programma “artigianale” di poche lezioni, con l’ABC dell’autodifesa, la somma di tecniche e trucchi che ho scoperto nella mia carriera di marzialista.
La prima grande occasione di provare sul campo quanto avevo preparato è stata un seminario che mi è stato richiesto dal responsabile della sicurezza sul lavoro della USL 3 di Bassano, l’ing. Emiliano Bazzan. Da allora, sono partite decine di corsi, con centinaia di persone addestrate, munite di regolare certificato di frequenza, e accreditate da punteggi – assegnati dopo gli esami – che valgono come crediti per le apposite graduatorie regionali.
Un altro evento importante è stato il corso presso la Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale di Brescia, sempre su richiesta. Mi ha permesso di approfondire la sfera psichiatrica e comportamentale dei pazienti. Il coinvolgimento emotivo maggiore l’ho avuto con i genitori di bambini e ragazzi autistici, che mi chiedevano come bloccare i figli soggetti a crisi di aggressività, senza fargli del male. Non è facile, può diventare un problema, data la relazione che c’è fra l’aggressore e chi deve fermarlo.
Pensiamo a quanto accade quando si fa ricorso ai TSO dove il paziente va contenuto e poi viene effettuato il trattamento, ma spesso chi esegue il contenimento esagera, usa maniere spicce, provoca ulteriori danni. I miei corsi vogliono evitare questo, mantenendo al tempo stesso un pieno rispetto per le persone che il trattamento lo subiscono.
Il coinvolgimento emotivo maggiore l’ho avuto con i genitori di bambini e ragazzi autistici, che mi chiedevano come bloccare i figli soggetti a crisi di aggressività, senza fargli del male.
Come sono articolati i tuoi corsi?
Abbiamo un primo livello propedeutico a cui può accedere chiunque sia interessato – operatore sanitario, familiare di un paziente, badante, assistente domiciliare o di comunità. Si studiano gli orientamenti psichiatrici e come si può salvaguardare la sicurezza individuale utilizzando tecniche adeguate. Sono davvero le basi, ma è un corso molto tirato, un po’ pesante; spesso mi chiedono di inserire un maggior numero di ore di lezione, dato che gli argomenti sono complicati.
Il secondo livello è riservato solo a chi è fisicamente idoneo a bloccare i pazienti, è predisposto mentalmente e ha reale necessità di farlo. Ovvero, le persone che in un reparto ospedaliero dovrebbero fungere da referenti. In questo corso si opera in gruppi o a coppie. Si parte dall’abilità individuale, che viene condivisa per creare una squadra pronta a fronteggiare un paziente che attacca in ogni modo possibile. Spesso io faccio da cavia, nel ruolo del malato, per vedere come se la cavano gli allievi. Diventano letteralmente matti, non riescono a fermarmi!
Riprendo un attimo l’aspetto della predisposizione mentale: in tanti hanno paura di diventare violenti, di essere in contraddizione con la propria fede religiosa (Alberto è cattolico praticante e pacifista convinto nda).
Ma chi ha timore di fare del male, quando si tratta di salvare se stesso non ci pensa più; come, per esempio, se deve strappare una persona cara, come una figlia piccola, dalle mani di un ammalato impazzito. Insomma, scatta la molla emotiva, tanto che accetta anche di utilizzare le armi per difendersi. Però, per poterlo fare con cognizione di causa, deve averci ben ragionato prima e aver trovato in sé il coraggio di sparare o di usare un coltello, un bastone. Altrimenti portare un’arma o tenerla in casa, non serve a niente.
Vorrei concludere con un esempio che il Maestro propone spesso durante i suoi corsi di autodifesa.
Quando mi chiedono qual è l’approccio da adottare, io rispondo così: tanti di voi penseranno a quello tipico del cane, che abbaia, ringhia, tenta di affrontare chi lo minaccia. Io dico, pensate piuttosto al gatto, all’apparenza, se ne frega e sembra indifeso, ma non lo è. Provate a osservare una mamma gatta che cerca di proteggere i micini o un gatto selvatico che si sente in pericolo, fanno di tutto: graffiano, strillano, mordono, scappano e svicolano, pur di recuperare la propria sicurezza!