20.01.18 a San Giorgio di Piano, tecnici, arbitri e atleti Fikta hanno partecipato allo stage per la standardizzazione dell’insegnamento dei kata.
“Non c’è tecnica senza pratica”. E ancora: “Bisogna dare il massimo per avere il massimo”.
Due precetti che hanno fatto da filo conduttore al primo stage di kata bunkai, che si è svolto sabato 20 gennaio 2018 a San Giorgio di Piano (BO) sul parquet delle società Fikta Musokan Yudanshakai e Yamato Damashi, diretto dal M° Carlo Fugazza, cintura nera ottavo dan e direttore tecnico della Fikta, coadiuvato dai settimi dan i Maestri Pasquale Acri e Alessandro Cardinale.
Quasi 5 ore di pratica per arbitri, tecnici e atleti della Fikta, da cintura blu a 8° dan, per l’insegnamento e la “standardizzazione” del kata e dell’applicazione, alla ricerca dell’origine dello stile Shotokan e del Tradizionale di cui da 50 anni, in Italia e non solo, è guida indiscussa Sensei Hiroshi Shirai.
Profondità e velocità sono le caratteristiche dello stile della scuola del M° Shirai, caratteristiche che sono state sottolineate durante il primo di una lunga serie di allenamenti specifici per lo studio, la pratica e la definizione del kata bunkai, da Heian Shodan a Heian Godan, con un riferimento anche al kata Unsu.
Una lezione sapientemente condotta dal M° Fugazza a cui una folta platea di praticanti ha potuto assistere e praticare allo scopo di educare, di tirare fuori, con una marcata ricerca delle origini dello stile Shotokan, con il ritorno alla pratica e allo studio del kata, perché, come ha ribadito il M° Fugazza durante lo stage: “Kata e kumite sono le facce di una stessa medaglia. Una non può escludere l’altra, l’una è la conseguenza dell’altra”.
“Kata e kumite sono le facce di una stessa medaglia. Una non può escludere l’altra, l’una è la conseguenza dell’altra”.
I PROTAGONISTI:
M° CARLO FUGAZZA
“Sono stato lo strumento che la Federazione ha scelto – ha sottolineato il M° Fugazza – per spiegare le diverse interpretazioni tecniche che, dopo molti anni di pratica dei bunkai, abbiamo riscontrato nella preparazione degli atleti. Alcuni accenti stilistici dovevano essere corretti e riportati alle origini, proprio come la tradizione insegna e come Sensei Shirai ci tramanda dall’alto della sua straordinaria esperienza di oltre 60 anni nella via del karate Shotokan tradizionale. E, parlandone in commissione tecnica e con il M° Giuseppe Perlati, abbiamo deciso che i tempi erano maturi per affrontare questo argomento, partendo dai 5 kata Heian di base, proseguendo con Bassai Dai e Unsu, quest’ultimo scelto come prova che, le squadre con atleti appartenenti alla categoria da terzo dan e oltre, presenteranno in gara. Mi ha colpito soprattutto la compattezza dei partecipanti, da cintura blu a 8° dan. Bello è stato lo spirito che ci hanno messo i praticanti e questo mi ha fatto un enorme piacere, perché in un lasso di tempo molto limitato rispetto alle nozioni che abbiamo proposto, siamo riusciti a dare un’impronta particolare, con un’atmosfera di concentrazione e disponibilità di tutti nel partecipare a questo allenamento che aveva come unico intento, come idea della federazione, di focalizzare alcuni punti di discussione e per praticare tutti la tecnica in questione allo stesso modo, come uno standard, uno stampo che ci ricorda da dove veniamo”.
Tutto questo mentre Sensei Shirai sta andando oltre la tecnica?
“Sicuramente. Il M° Shirai è un vulcano di idee, in ricerca perenne nel migliorare la qualità della tecnica, nell’approfondimento del significato più puro del nostro stile. Sta a noi rimanere al passo con lui anche in questo momento in cui sta continuando, come da dieci anni a questa parte, a rielaborare, studiare e interpretare i bunkai”.
C’è un lungo lavoro di preparazione dietro a questo stage?
“Sono stati diversi gli accenti che abbiamo sottolineato e molto è stato il lavoro di ricerca e di approfondimento sulle tecniche dei kata bunkai da evidenziare. Ma una cosa mi piace ricordare: dopo che io e il M° Capuana da atleti divenimmo allenatori (i primi formati dal M° Shirai che gli successero alla guida della nazionale italiana di karate, nda), il M° Shirai disse: “Non cambiare mai il kata in funzione della gara”. E io ho cercato di fare con gli atleti di allora la stessa cosa, ovvero, mai cambiare il kata adattandolo, magari per andare incontro ai gusti degli arbitri, perché potevamo avere punteggi migliori, ma sempre allenando gli atleti nel rispetto del kata originale come lo avevamo ricevuto noi, proprio come il Maestro mi aveva detto di fare. Da allora sono passati 40 anni ed è giusto che nel tempo si sia reso necessario puntualizzare e fare un chiarimento”.
Questo suona come un invito a tornare alla pratica giorno dopo giorno del kata, non le pare?
“Io mi sono chiesto perché, in questo periodo, molte persone si fanno tutte queste domande su come si pratica una tecnica. Quando ho iniziato a fare karate non avevo questi dubbi, perché tutti lo facevamo in quel modo, nella maniera in cui il M° Shirai lo faceva: era il 1965, lui era appena uscito dal Giappone con la sua missione, era ancora puro, la matrice era quella e non c’erano domande da porsi. Il kata si faceva solo in quel modo, non si interpretava, si rispettava la formella su cui lavorare e studiare anche nelle applicazioni. Ultimamente credo che anche gli strumenti come i social network, vedi Facebook, o la diffusione di tanti video su Youtube, siano, soprattutto per i giovani, fuorvianti, così come il proliferare di sigle e regolamenti portano a farsi delle domande e noi ci siamo chiesti il perché. Molte federazioni hanno solo modificato il kata per il fine ultimo della gara o secondo i dettami della federazione internazionale, ma è solo un mezzo per il fine della competizione. Siamo convinti, come federazione, invece, che le piccole cose che si sono perse nel tempo vadano studiate di nuovo, facendole vedere correttamente eseguite così come le abbiamo imparate a nostra volta, stabilendo uno standard educativo riconosciuto dalla Fikta e nel rispetto pieno di tradizione che i nostri maestri ci hanno tramandato. E una cosa dobbiamo avere sempre presente: la gara non è il fine, ma solo il mezzo”.
Siamo convinti, come federazione, invece, che le piccole cose che si sono perse nel tempo vadano studiate di nuovo.
Un po’ come gli esami di passaggio di grado?
“Quando aiutiamo un allievo che si presenta all’esame e notiamo qualche difficoltà nell’eseguire le tecniche e ci rendiamo conto che magari il 2° o il 3° dan per lui non sarebbero il livello giusto, ma se capiamo che quello è il suo massimo e, una volta chiesto al suo maestro se è una persona seria che vale la pena di promuovere, magari perché si allena con costanza e non manca mai in palestra, allora si merita comunque il grado richiesto, perché se anche ha qualche carenza, con metodo, impegno e allenamento si può sempre migliorare. Ma bisogna sempre fare molta attenzione quando ci sono delle eccezioni”.
Una soluzione, quindi, sarebbe quella di innalzare il livello tecnico durante gli esami di dan?
“Certamente bisogna rialzare l’asticella così come succede nel kata, perché se ci accontentiamo delle eccezioni, se ammettiamo che un allievo in un certo modo interpreti l’esecuzione della tecnica a lungo andare si perderà la vera essenza di quella tecnica. La “legge di Murphy” in questo caso parla chiaro: “Non c’è limite al peggio” e per questo dobbiamo mantenere un certo rigore in quello che facciamo, di modo che i principi trasmessi siano mantenuti in modo corretto, così come dobbiamo mantenere una certa identità come federazione”.
E continuando a praticare assiduamente la tecnica c’è un mondo da scoprire.
“Tanti anni di gare, venti per l’esattezza, mi hanno fatto crescere e mi ricordo quando il M° Shirai mi disse: “Quando finirai di partecipare alle gare allora inizieremo a fare karate”. Non mi sono mai permesso di fare domande, ma dentro di me dicevo: “Ma allora cosa sto facendo?”. Poi con il passare del tempo ho compreso il significato delle sue parole e ho iniziato a praticare nella “via”. A 20-25 anni sei ancora un ragazzino, non sei maturo e non capisci in profondità le cose anche se ti alleni tutti i giorni. Quando ho chiuso con la carriera agonistica ho capito, invece, cosa voleva dire il Maestro con le sue parole e ho continuato nella mia vita, di insegnante e di praticante professionista, approfondendo i suoi dettami. E ti rendi conto che nella pratica c’è un mondo da scoprire e tutto questo viene dall’insegnamento del karate tradizionale ricevuto dal Maestro in tutti questi anni. È come per l’albero: all’inizio cresce il tronco, poi i rami principali, poi i rami secondari, spuntano le foglie e la chioma si infoltisce, ma si parte sempre dalla radice, dal nutrimento della pinta per arrivare alla foglia più alta. Continuando a praticare ti rendi conto che lo stesso kata che facevi da 8° kyu non lo puoi praticare ora, da 8° dan, un grado che la federazione mi ha riconosciuto e che devo ancora cercare di capire nel suo significato più profondo: c’è sempre una grande responsabilità soprattutto verso se stessi, ma ancora di più verso i gradi inferiori, perché devi praticare portando tutto sempre al massimo livello. Questo però non vuol dire più conoscere solo l’ordine delle tecniche del kata, la sua sequenza diciamo, ma tutto trascende la forma e diventa lo stato dell’arte. Tutto questo comporta certe difficoltà e ti rendi conto che c’è un motivo perché la chiamano “arte marziale”. Oggettivamente parlando, come per un quadro, se vedo un kata anche se non ho mai praticato karate devo rimanere colpito, impressionato da quello che sto osservando: ti deve emozionare! Quando ho iniziato a fare karate era così, c’era emozione. La prima lezione che ho visto era proprio diretta dal M° Shirai e se devo essere sincero mi sono spaventato: provai talmente una forte emozione nel vedere quelle tecniche eseguite con così tanta maestria che rimasi impressionato. Ci ho messo un mese per iscrivermi, perché ero terrorizzato, ma penso che se non avessi provato quelle emozioni non avrei iniziato a praticare. E così deve essere ogni giorno”.
Credo che il M° Shirai sia uno dei pochi che ha mantenuto questa missione, quella di proseguire nel karate come Budo, come arte marziale, come ricerca della Via.
Questo è il vero insegnamento dello stile Shotokan?
“Credo che il M° Shirai sia uno dei pochi che ha mantenuto questa missione, quella di proseguire nel karate come Budo, come arte marziale, come ricerca della Via. Lui è andato ormai oltre con il suo studio continuo, perché fa parte del suo Dna il fare, il ricercare, lo studiare, ma lui non ha mai dimenticato le sue origini e anche noi dobbiamo fare altrettanto. In fondo, questo è il karate tradizionale stile Shotokan”.
M° PASQUALE ACRI
Uno dei protagonisti dello stage di kata bunkai insieme al M° Fugazza è stato il M° Pasquale Acri, allenatore della nazionale di kata e cintura nera 7° dan. “Dietro a questo stage c’è una cosa molto importante da capire – afferma il M° Acri – poiché il M° Fugazza ha preparato questo stage negli ultimi tre o quattro mesi con dovizia di particolari e sia io che il M° Cardinale abbiamo collaborato con lui, preparandoci a nostra volta. Il M° Fugazza si è confrontato spesso anche perché ci teneva in maniera particolare alla preparazione di questo stage. Un momento importante per chiarire gli aspetti che qualche volta quando si fa allenamento si danno per scontati e per approfondire alcune tecniche e la loro corretta esecuzione. Sensei Shirai, proprio per la sua continua ricerca e il suo continuo studio che dura da oltre sessant’anni, non si sofferma più su alcune tecniche, ma ci trasmette quello che in quel momento vuole approfondire con noi. La cosa importante da capire per chi pratica il kata nel karate tradizionale è di non contaminare la tecnica, quest’ultima, trasmessa a noi immutata nel tempo, che deve a sua volta essere trasmessa così come è allo stato dell’arte del tradizionale con relativa immutabilità. Quello che pratichiamo è il nostro karate, quello delle origini dello Shotokan, la nostra tecnica, il nostro modo di essere, ed è importantissimo ricordarci da dove veniamo se vogliamo che qualcuno, dopo di noi, a sua volta, tramandi questa tecnica. E proprio il M° Fugazza sente questa esigenza, quella di tramandare la tecnica corretta, per mettere in moto un circolo vizioso e portare avanti il Tradizionale, ovvero, la tradizione. Per la prima volta, in tanti anni, ho sentito in lui un po’ di timore, quello che si perdesse qualcosa per strada se non si è chiari nella pratica”.
M° ALESSANDRO CARDINALE
Anche il M° Alessandro Cardinale è stato chiamato, insieme al M° Acri, a dimostrare l’applicazione dei kata bunkai dei 5 heian e del kata Unsu. Un privilegio per pochi.
“Per me e il M° Acri poter partecipare in maniera attiva a questo allenamento è stato un grandissimo privilegio del quale non ci sono parole per descriverne la grandezza. Da 30 anni, due o tre volte a settimana, mi alleno con il M° Fugazza di cui nutro un grande rispetto e ho instaurato con lui un grande legame di fiducia reciproca così come con il M° Acri, il mio compagno di allenamento di una vita”.
Una grande responsabilità, certamente, è anche quella di dimostrare ogni volta la tecnica e la sua giusta esecuzione davanti agli stagisti.
“Anche se dimostro davanti a 300 persone è come se fossi da solo con il mio Maestro, con il mio compagno di allenamento con cui siamo insieme da quando avevamo l’età di 15 anni, e ci metto sempre il mio massimo impegno, perché è il mio allenamento con loro, per migliorare me stesso, anche se poi, in realtà, ci sono anche i corsisti che ci guardano. Tutti i martedì e i mercoledì mattina alle 6.30 ci troviamo per allenarci insieme ed è da trent’anni che iniziamo l’allenamento con lo stesso programma di kihon e l’esecuzione dei 5 kata heian, la stessa cosa da trent’anni e ho capito il perché”.
Quello che pratichiamo è il nostro karate, quello delle origini dello Shotokan, la nostra tecnica, il nostro modo di essere, ed è importantissimo ricordarci da dove veniamo se vogliamo che qualcuno, dopo di noi, a sua volta porti avanti e tramandi questa tecnica.
Tutti i corsisti hanno dato il massimo impegno durante l’allenamento?
“Ho sentito un grandissimo impegno da parte del M° Fugazza di dare il meglio, anche perché in platea c’erano parecchi settimi dan i quali sono venuti a loro volta appositamente per fare lezione e per praticare assieme a lui e, quindi, anche io sentivo che dovevo dare il massimo”.
Uno stage dallo scopo educativo?
“Ce ne era bisogno, alla luce di alcuni dialoghi avuti con i diversi Maestri della federazione e durante i raduni della commissione tecnica è venuta fuori l’esigenza di puntualizzare alcune cose relative alla tecnica. Anche io facendo lezione agli atleti azzurrabili ho visto che c’era l’esigenza di standardizzare l’insegnamento dei kata e dei bunkai, per fare appunto uno standard e trasmettere in modo corretto il nostro karate a tutti i praticanti, ovvero, la matrice, la formella nel quale si sviluppa il nostro modo di fare karate. Era già molto tempo che chiedevano al M° Fugazza di farsi portavoce di questo stage, ritenendolo la persona più adatta a sottolineare alcuni aspetti tecnici da persona puntale, pignola e precisa nella forma com’è. E la risposta è arrivata con la partecipazione di tantissime persone, un pubblico eterogeneo e attentissimo. E più tutti facciamo karate nello stesso modo più è il karate che vale, ovvero, quello della Fikta”.
LA RIFLESSIONE: ALLA RICERCA DEL KARATE PERDUTO
“Faccio una premessa – dice il M° Enrico Cembran, che dal Lazio insieme a tanti Shihan della Fikta, non ha voluto mancare all’importante appuntamento – sono un estimatore assoluto delle qualità umane e tecniche del M° Carlo Fugazza da quasi quarant’anni. Il mio primo stage col M° Fugazza risale a quando, acquisita la mia indipendenza affettiva da un contesto federale nel quale mi ero trovato proiettato, obtorto collo, e nel quale non sono mai riuscito a sentirmi realizzato, rientrai nella scuola del M° Hiroshi Shirai. L’Istituto Shotokan Italia organizzò a Roma, alla Scuola dello Sport del C.O.N.I. uno storico stage divulgativo, in cui gli insegnanti erano ‘niente popò di meno’ che Sensei Taiji Kase, Sensei Hiroshi Shirai e per l’appunto, Sensei Carlo Fugazza. In quella sede venni di nuovo a contatto con quel karate Shotokan fatto di conoscenza, rigore, ma anche di generosità, cortesia ed educazione che per molti anni mi erano stati preclusi, e che avevo conosciuto nei primi tre anni di pratica nella Fe.S.I.Ka.”
“Detto questo – prosegue il M° Cembran – lo stage di sabato scorso mi è piaciuto tantissimo. Perché “Alla ricerca del Karate Perduto…”? Già, mai come in questo momento, con la probabile entrata del karate nel gruppo delle discipline olimpiche, risulta importante mantenere salde le radici della tradizione. Dico probabile, perché molti si dimenticano che la partecipazione del Karate ai prossimi giochi olimpici è in qualità di “Sport Dimostrativo”. L’eventuale permanenza a titolo definitivo sarà subordinata a molti fattori, fra cui la reale unificazione dei tantissimi gruppi e gruppetti di praticanti che si definiscono Federazioni di Karate. Del resto, un Karate fatto solo di velocità e (supposta) spettacolarità, svilisce il grande patrimonio di conoscenza pervenutoci attraverso la pratica e la conoscenza dei grandi Maestri che a cavallo degli anni 60 e 70 arrivarono in Occidente proprio per farcelo conoscere. La “ricerca del Karate Perduto” è stato il leitmotiv delle quattro abbondanti ore di pratica svolte sabato 20 gennaio e in questo il M° Carlo è stato veramente molto chiaro, esiste un livello di conoscenza per tutto. Quindi, anche per la pratica di una disciplina, il Karate Tradizionale, che non dovremmo mai dimenticare è anche Arte e in quanto tale, conoscenza, talento, estro… Attraverso i livelli di apprendimento di un kata è quindi possibile addentrarsi sempre più profondamente nel reale significato di un gesto, quello contenuto nel kata che deve del tutto essere decifrato. Questo, a patto di essere consci del grande sforzo profuso dai rispettivi autori nel diffonderne i contenuti”.
È stato proprio questo il grosso messaggio veicolatoci da Sensei Carlo Fugazza, non smettere mai di rimettere in discussione tutto quello che sappiamo.
“Sappiamo – conclude il M° Cembran – che i kata derivano da situazioni reali di combattimento che con quello delle competizioni non hanno nulla a che vedere, se non lontanamente e in ciò che si può osservare in una gara di Embu condotta da praticanti molto consapevoli ed esperti. Sappiamo anche che in questo processo, il maestro creatore del kata voleva trasferire la sua esperienza. Essa era probabilmente molto realistica e in quanto tale, dolorosa, veicolando, tanto per intenderci, un vissuto riferibile alla morte di qualcuno. Tale concetto trova nella definizione di Ikken Hissatsu la sua massima estrinsecazione. La lungimiranza di queste grosse personalità le portò a camuffare i gesti onde trasferire solo ad un numero ristretto e selezionato di praticanti, delle tecniche di natura letale, preoccupati dagli effetti di una loro condivisione, interpretazione ed applicazione inopportuna e sconsiderata. Ed è stato proprio questo il grosso messaggio veicolatoci da Sensei Carlo Fugazza, non smettere mai di rimettere in discussione tutto quello che sappiamo, integrando la conoscenza con la nostra personale intuizione di praticanti esperti e maestri, mantenendo ben fermo il senso del messaggio pervenutoci”.