Il karate è come l’acqua calda. Occorre riscaldarla costantemente o si raffredda.
Essendo dotato di grande forza, Yara era attratto per natura da attività che richiedevano scontro o contatto fisico. Tutto ciò che implicava forza o velocità suscitava il suo entusiasmo. Ma nel frattempo il suo maestro stava lentamente instillando in lui il valore dell’equilibrio e il principio dell’armonia.
Ogni giorno, durante gli esercizi di allenamento, il maestro sceglieva il momento giusto per dargli una leggere spinta ed egli inciampava da una parte o dall’altra. Nonostante tutti i suoi sforzi, non riusciva a mantenere l’equilibrio. «Tutte le cose trovano il loro principio nell’unità» diceva il maestro con tono dolce ogni volta che Yara incespicava stupidamente.
All’improvviso, un giorno egli capì che l’unità di cui parlava il suo sensei era quella della mente e del corpo, e che avrebbe ottenuto l’equilibrio che cercava soltanto dopo che le sue parti, fisica e spirituale, ne avessero raggiungo uno proprio.
Prima che se ne rendesse conto, erano passati vent’anni. Ormai per lui il tempo era relativo. Ricordava che il suo maestro diceva sempre: «Il tempo è importante per l’uomo che non ha pazienza. Se aspetta una persona che ama, dieci minuti sono molti. Se pratica per raggiungere la perfezione, cinquant’anni sono appena un inizio».
(Richard Kim, Guerrieri senza armi – Breve storia del karate di Okinawa, Ed Mediterranee, 2016.)
Nel karate, come in qualunque altro sport e nella vita in generale, c’è sempre qualcosa di meglio che puoi fare, anche quando non ci credi, anche quando sei convinto di essere arrivato al tuo massimo.
Esistono senz’altro limiti fisici e psicologici che in un certo periodo della nostra vita possono influenzare negativamente l’allenamento. Non siamo supereroi e non possiamo trasformarci in atleti da Olimpiade in un giorno, ma ci sono molte cose che possiamo fare per garantirci un miglioramento continuo e l’affinamento costante della tecnica.
Personalmente sto cercando di seguire alcune regole.
Spesso l’ostacolo è nella mente, nel modo in cui percepiamo noi stessi e gli obiettivi che possiamo raggiungere.
La prima regola è “non cercare scuse”. È un difetto di cui soffrono in molti. Il ma è pronto in canna ogni volta che viene chiesto di fare di più, di meglio, di diverso. È una lotta continua con i però, se, vedremo, non sono pronto. Durante un allenamento magari siamo affaticati, i muscoli bruciano, il fiato manca, ma stiamo dando il tutto e per tutto e infondo ci sentiamo anche soddisfatti di noi stessi, almeno fino a quando il maestro non chiede di meglio, e noi siamo lì – perplessi – a chiederci “ma come!?”.
La trappola è dietro l’angolo. Ha ragione il maestro, e lo sappiamo, ma mentiamo spudoratamente a noi stessi e abbiamo quella protesta, quella scusa, pronta da tirar fuori. È un meccanismo di difesa, un modo per giustificare le nostre mancanze. Ci diamo un’attenuante per mettere un freno alla fatica, perché andare oltre l’ostacolo può essere molto difficile.
La seconda regola è “non dare voce alle scuse”, che sembra simile alla precedente, ma è molto diversa, perché quando le scuse sono dette ad alta voce, prendono vita. È inutile cercare di spiegare il perché dei nostri difetti, a meno che non si soffra veramente di qualche infortunio invalidante, tale per cui star zitti diventa non solo controproducente, ma anche pericoloso. Invece, se stiamo bene – ricordando che tutte le persone che fanno uno sport hanno sempre qualche dolore cronico con il quale convivere – è davvero superfluo inventarci, se pure in buona fede, fantomatici problemi fisici. Spesso l’ostacolo è nella mente, nel modo in cui percepiamo noi stessi e gli obiettivi che possiamo raggiungere.
A tal proposito, la terza regola è “darsi obiettivi semplici”. Ci saranno probabilmente decine di aspetti tecnici che possiamo migliorare. Non ha senso credere di poterli affrontare tutti insieme nello stesso momento. È meglio iniziare con una o due cose, averle sempre a mente. E insistere. È un lavoro costante da fare su noi stessi, un modo per essere sempre pronti a modificare, rivedere, trasformare. Lentamente, lavorando su un difetto alla volta, acquisiremo maggiore controllo del nostro corpo e saremo pronti a lavorare su un aspetto nuovo.
Un maestro non è un essere perfetto, ma è una guida che ha già camminato sui nostri passi prima di noi.
La quarta regola è “riprovare le cose che facciamo peggio”. Evitare un esercizio, una tecnica o un kata, perché sappiamo di non essere capaci o di non essere abbastanza bravi, non porterà dei benefici. L’unico modo per ottenere un miglioramento è insistere sulle cose in cui rendiamo meno. Talvolta può essere doloroso, ma è il solo modo per andare oltre l’ostacolo. Ci sono aspetti della nostra preparazione atletica e tecnica che non possono migliorare se non diamo a noi stessi la possibilità di provare e riprovare, pur sbagliando numerose volte, pur essendo imprecisi, inefficaci. La forza, per esempio, si allena caricando dei pesi. Si inizia con pesi bassi, ma prima o poi è necessario aumentare il carico per ottenere risultati apprezzabili. Sarà doloroso, l’acido lattico non darà tregua, ma infine il corpo si adatterà al nuovo peso e la nostra forza sarà maggiore. Se l’idea della fatica che dovremo sostenere ci farà rinunciare all’aumento del peso, allora avremo azzerato le opportunità di successo.
La quinta regola è “fidarsi del maestro”, che è probabilmente il fulcro di ogni cosa. Se manca questa fiducia, vuol dire che qualcosa non funziona e che è il caso di rivedere alcune priorità o domandarsi se il cammino che abbiamo iniziato sia davvero giusto per noi. Un maestro non è un essere perfetto, ma è una guida che ha già camminato sui nostri passi prima di noi; non è a disposizione per i nostri capricci, ma è presente per mostrarci come migliorare. Non sarà un viaggio semplice, ma se esiste fiducia, darà solo soddisfazioni.
Le regole non finiscono qui, ma in fondo ognuno ha bisogno di concepire la pratica dell’arte marziale a suo modo. Le motivazioni che spingono una persona e studiare karate possono essere molto diverse tra loro. Talvolta gli aspetti spirituali sono preminenti, altre volte si studia per superare le paure, magari anche solo per stare in forma o per vincere una gara. Tutto è degno di merito.
Queste regole sono le mie e non sempre sono brava a seguirle. La cosa importante è avere un metodo, dare un senso alle cose, altrimenti ogni gesto si svuota e il miglioramento diventa impossibile.
Puoi sfruttare le tue crisi per creare una strategia, usare di te stesso il meglio di cui disponi in quel momento.
Bisogna essere molto onesti con se stessi, ascoltare quello che la nostra mente e il nostro corpo cercano di dirci, imprimere forza laddove necessario, ricordando che dove esiste una crisi c’è anche una crescita. Ed è forse la cosa più difficile, quando si attraversa una crisi, trovare lo stesso il modo di muoversi, vivere, convivere, amare, comprendere. In questi anni ho praticato il karate in molte situazioni diverse: euforia, tristezza, stress, noia, stanchezza. Tutto lo spettro delle emozioni. E ho scoperto che in ognuna di queste emozioni esiste una scintilla che serve alla pratica stessa.
Impari ad allenarti in ogni situazione, scopri che il tuo corpo risponde lo stesso, che la tua mente si adatta, che è capace di smistare i pensieri in un modo che sia favorevole.
Impari che se hai mal di schiena puoi praticare anche rimanendo in piedi, che se sei triste, il kime diventa uno sfogo, che l’euforia migliora il tempo di reazione. Puoi sfruttare le tue crisi per creare una strategia, usare di te stesso il meglio di cui disponi in quel momento. Alla fine, anche se con fatica, avrai migliorato qualcosa, avrai lavorato bene, non ti sarai risparmiato.
Combattere le scuse fa parte dell’allenamento. Deve diventare un esercizio, un modo di fare, uno ‘stile’, oserei dire. Se combattiamo le scuse possiamo lasciare spazio a tutto il resto, possiamo aprirci a nuove esperienze, dare a noi stessi la possibilità di imparare nuove cose, di correggere errori, di rivedere in meglio ciò che crediamo di saper fare.
Come recita uno dei principi di Gichin Funakoshi, il karate è come l’acqua calda. Occorre riscaldarla costantemente o si raffredda.