“La circolarità virtuosa” del sistema Dojo, dove il corpo ascolta e la mente sente.
“Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità…
Conoscere l’altro e se stessi – cento battaglie, senza rischi;
non conoscere l’altro e conoscere se stessi – a volte vittoria, a volte sconfitta; non conoscere l’altro né se stessi – ogni battaglia è un rischio certo.”
(Sun Tzu)
Nella psicoterapia sistemico-relazionale il cosiddetto “approccio sistemico” si occupa di esplorare quella dimensione della coscienza in cui ogni fenomeno è parte di un sistema a cui è interconnesso e da cui dipende: ogni organismo è una totalità composta di parti interagenti tra di loro e tendenti all’equilibrio (Von Bertalanffy). Ne consegue che esiste un rapporto circolare tra le parti di un dato sistema, cosicché il cambiamento di una di queste provoca una modifica delle altre e, quindi, del suo intero. Tale assunto determina il passaggio dal vecchio metodo scientifico (fondato su una casualità di tipo lineare, fatto di rapporti causa-effetto tra variabili dipendenti), a uno nuovo basato su una causalità di tipo circolare, fatto cioè di interazioni reciproche tra le molteplici variabili, in cui causa ed effetto si influenzano reciprocamente.
…la dinamica di gruppo può essere utilizzata come una prassi in cui il mezzo principe del cambiamento è il gruppo stesso.
Il sistema (dal greco stare insieme) secondo la teoria sistemica:
- è un’unità intera e unica;
- è composto da parti in relazione tra loro che tendono all’equilibrio;
- l’intero risulta diverso dalla semplice somma delle parti;
- qualsiasi cambiamento in una sua parte influenza l’intero nel suo insieme;
- ogni suo elemento è in relazione con gli altri elementi e ha una ragione d’essere per la specifica funzione che svolge;
- comportamenti, ruoli e funzioni diverse concorrono a generare la Proprietà Emergente del Sistema, che è una caratteristica superiore alla somma delle funzioni.
Pensare in modo sistemico, in buona sostanza, significa osservare i nessi tra le cose cercando di coglierne l’interdipendenza. A tal proposito Lewin fa riferimento alle tesi di Einstein, il quale aveva evidenziato che l’essenziale dei fenomeni fisici non risiedeva nelle cariche, né nelle particelle, ma nel campo, ovvero nello spazio “vuoto” tra queste e che un fenomeno non poteva essere compreso se non veniva osservato l’insieme delle relazioni inerenti a esso, per formulare le sue teorie sul gruppo.
Sulla scorta di quanto descritto finora, dunque, la dinamica di gruppo può essere utilizzata come una prassi in cui il mezzo principe del cambiamento è il gruppo stesso, presentando intenti comuni che facilitano lo sviluppo di relazioni, la nascita di legami identificativi, la creazione di una cultura comune e potenti meccanismi trasformativi; inoltre, essendo contemporaneamente sia un contenitore sia un contenente, ha proprietà curative visto che l’elaborazione delle vicende individuali avviene in relazione a quanto accade nello stesso e ai fenomeni che in esso si manifestano, pertanto, ogni evoluzione e crescita personale diviene un elemento utile e potenzialmente trasformativo per tutti.
L’azione della psicoterapia sistemico-relazionale, in tal senso, è quella di agire sul gruppo, comprendendo come ci si relaziona a esso, per poi condurre l’individuo a un’autonomia funzionale al proprio livello di attivazione dei bisogni (tratto che rappresenta la sua unicità). Successivamente e/o in contemporanea è possibile, tramite un occhio esperto, prestare attenzione al corpo come teatro delle emozioni, primo strumento con cui entriamo in contatto con il mondo: la psiche e il soma non sono due entità separate, ma la complessa e unitaria espressione dell’organismo stesso. Sovente disturbi o disagi psicologi trovano espressione in manifestazioni di carattere somatico e parallelamente il nostro corpo spesso li racchiude nella sua postura, nei movimenti, nel suo stato di salute, come uno specchio del vissuto emotivo della persona.
Il funzionamento del corpo e quello della mente sono identici, ciò che accade nel corpo riflette ciò che accade nella mente e viceversa attraverso una sintesi espressiva di un “fare” fisico e un “sentire” emotivo.
In base a quanto descritto finora, il Karate Tradizionale, in ottica sistemico-relazionale, può diventare uno strumento d’eccezione per lavorare sulla complessa relazione esistente dell’individuo con i suoi gruppi di appartenenza, in quanto si presta alla valorizzazione della dinamica gruppale con il monitoraggio dei processi, dei movimenti e degli stati emotivi e, altresì, vengono assegnati compiti ed esercizi che stimolano sia la coesione sia l’aspetto individuale (attraverso lo studio delle tecniche, ma anche la conoscenza della terminologia specifica e della ritualità, la trasmissione dello spirito marziale e della sua filosofia divenendo ricerca interiore): l’esperienza formativa è un continuo interscambio di processi paralleli tra formazione/trasformazione, apprendimento/cambiamento, capire/sentire.
…la psiche e il soma non sono due entità separate, ma la complessa e unitaria espressione dell’organismo stesso.
Una delle capacità che il Karate-do trasmette intrinsecamente all’atleta, infatti, è quello di differenziarsi dal gruppo con il passare del tempo, consentendo di diventare se stessi oltre il proprio sé di appartenenza e riuscire ad avere, in tal modo, la giusta modalità di reazione della risposta che dall’automatizzazione passa all’acquisizione soggettiva, in modo che sia adeguata alla posizione (radicamento a terra) e alla conseguente reattività del soggetto e/o compagno di allenamento.
La disciplina del Karate-do, pertanto, se opportunamente indirizzata all’individuo/gruppo, è capace di far compiere movimenti sistemici volti a una comunicazione del disagio trasformandolo in risorse.
Il “sistema/contesto” nel quale è possibile agire in tal senso non è altro che il Dōjō (道場 Do=via Jo=luogo), cioè il luogo dove si pratica o, meglio, dove si ricerca la “via”. Uno spazio e/o strada ricca di aspettative in cui si sperimenta la capacità di affrontare i propri limiti e trovare le risorse necessarie per superarli, con la possibilità di comprendere i “vuoti relazionali”, una dimensione caratterizzata da sistemi di relazioni che la mente sviluppa in termini di dipendenza e di appartenenza (la necessità di appartenere a un gruppo al quale uniformarsi e conformarsi per indicare la tendenza dell’essere umano al possesso e al blocco evolutivo).
Il nostro mondo è composto da molti gruppi e ogni gruppo ha un suo rituale specifico con specifiche regole di condotta che rendono i loro componenti solidali; anche i rituali della dipendenza svolgono lo stesso ruolo, infatti, partecipare al rituale del gruppo denota l’appartenenza a quel gruppo: se una persona mette in atto un certo comportamento allora deduciamo che quella persona appartenga ad un certo gruppo.
Il lavoro centrato sulle relazioni significative che si stabiliscono all’interno del gruppo valorizza la funzione di rispecchiamento che il gruppo svolge per l’individuo, ciascuno può scoprire un’immagine e/o una definizione del Sé, comune amplificazione del normale processo evolutivo: in che cosa rassomiglio a… ? In che cosa sono diverso da… ?
Il legame insito nella co-costruzione della pratica acquista significato quando diventa “Via”, in cui il nesso relazionale tra il sé e le sue relazioni possibili si rafforza attraverso la necessità di appartenenza espressa al suo massimo nel luogo/contesto “Dojo”.
Il Dōjō, inteso come “collettività/insieme intero”, è in grado di sviluppare azioni per rafforzare e/o mettere in discussione i confini del proprio sé, sia come singolo sia rispetto al gruppo: mettendo in evidenza i propri livelli di soglia limite, permette all’individuo sia di decostruire il proprio mondo interiorizzato di vivere le competenze e/o sistema di credenze, sia di recuperare script di base calmierati da una opinione di sé standardizzata.
Partendo da queste logiche, la visione “circolare” al Dōjō permette di comprendere in modo efficace e funzionale i movimenti intrapsichici dell’individuo, del gruppo, della dimensione tecnica e strutturale che si sviluppa tra il maestro, il singolo e il gruppo stesso.
Una delle capacità che il Karate-do trasmette intrinsecamente all’atleta, infatti, è quello di differenziarsi dal gruppo.
Il Dōjō diviene il contesto dove:
- ognuno diventa parte del sistema e il sistema diventa parte dell’individuo per elaborare il Sé attraverso il confronto con l’altro diverso/uguale da sé;
- il singolo attua/sperimenta fasi dinamiche di rispecchiamento, identificazione e differenziazione attraverso la ricerca costante del “miglioramento”;
- l’individuo diventa parte di un meccanismo facilitante per trasformare le difficoltà in risorse.
In sostanza, diviene un “circolo virtuoso”, strumento con cui potersi aprire a nuove traiettorie, con l’idea di percorrere strade diverse da quelle a cui si è abituati, orientandosi verso nuovi modi di percepire/si, in un“gioco”alternato dove il corpo ascolta e la mente sente.
Bibliografia:
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Aurilio R. (2015), La terapia sistemico-relazionale tra coerenza e strategia. Apprenderla e praticarla, Milano, FrancoAngeli Edizioni.
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Tirelli M. et Al. (2016), Manuale di psicoterapia sistemica di gruppo, Milano, FrancoAngeli Edizioni.
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Liguori T. (2015), “La via della mano aperta”: l’equilibrio relazionale nel gruppo, Salerno, ISPPREF.
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Baldascini L. (2002), Legami terapeutici, Milano, FrancoAngeli Edizioni.
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Benedetti B. (2003), La relazione educativa nel gruppo: verso una prospettiva sistemica, Roma, Liguori Editore srl.
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Nekken C. (1999), Personalità viziose. Comprendere il processo di dipendenza e riprendere il controllo di sé, Milano, Tecniche Nuove editore.