La politica influenza il karate o è vero il contrario?
L’Italia è un Paese in perenne campagna elettorale e le mobilitazioni di simpatizzanti e iscritti ai partiti politici sono piuttosto frequenti. Prendiamo spunto da quella indetta a Roma, qualche settimana fa, da Forza Nuova, che, insieme ai tassisti, ha esplicitamente convocato gli artisti marziali.
Già, perché proprio loro? Perché qui da noi chi pratica un’arte marziale viene spesso accomunato alle formazioni di destra? Negli altri Paesi, succede la stessa cosa? La politica influenza il karate o è vero il contrario?
Nel caso di Putin, è addirittura stata coniata l’espressione ‘politica del karate’ per la sua visione strategica dei rapporti con i vicini.
In Italia, possiamo ricordare un episodio avvenuto nel 2012, a Loano ai Campionati assoluti Senior Kata, anno in cui proseguivano le celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità nazionale. I finalisti dovevano esibirsi in un esercizio di libera composizione. Bene, Mattia Busato (Fijlkam), ha intitolato il suo kata col nome di un protagonista del Risorgimento. Non Mazzini, non Garibaldi, che accendono i cuori ma sono personaggi più connotati politicamente, bensì, il più prosaico conte di Cavour… Da noi, evidentemente, il cuore politico del karate è moderato, conservatore. (Enzo Jannacci era una mosca bianca).
Guardiamoci attorno.
In Francia, con la recente disfatta di Hollande e l’ascesa alla presidenza della Repubblica di Macron, più portato per il teatro, le discipline marziali hanno perso uno dei Paesi in cui il potere è nelle mani di un loro esperto nonché fan.
La Russia certo non è più l’URSS comunista, ma nemmeno si può dire sia diventata di “destra”. I tre stati in questione hanno qualcosa in comune: sono delle oligarchie, guidate da un capo supremo, tendenti all’autocrazia. E strumentalizzano fortemente i successi sportivi a fini politici, per ribadire la propria potenza o acquisire qualche simpatia in più.
Nel caso di Putin è addirittura stata coniata l’espressione “politica del karate” per la sua visione strategica nei rapporti con i vicini: nei loro confronti ha adottato la tattica di giocare in difesa, utilizzando un’opzione aggressiva – la minaccia di tagliare le forniture di gas all’Ucraina, soprattutto alle industrie, o il divieto di importare vino dalla Moldavia, pesce dall’Estonia e latticini dalla Lituania…
Dall’Inghilterra, una riflessione ampia e zeppa di riferimenti agli atleti agonisti e agli arbitri:
In sintesi, a differenza di quanto è avvenuto nel pugilato e nell’atletica, dove figure carismatiche come Muhammad Alì e Tommy Smith hanno incarnato istanze politiche e sociali, con comportamenti coerenti, i campioni del karate appaiono degli ”utili idioti”. Desiderosi solo di un palcoscenico da protagonisti per qualche anno, senza alcun pensiero sulle vicende umane che non sia, al massimo, quello di compiacere il potente di turno. Questo anche in mancanza di grandi sponsor e interessi in gioco.
Insomma, l’apoliticità è, forse a torto, sinonimo di correttezza. Fatto salvo il caso recente delle karateka saudite, vere e proprie eroine per i movimenti i femministi, perchè osano gareggiare a dispetto di insulti e minacce, magari senza velo. E quello, più remoto, della francese Jacqueline Le Sains, che si è sempre battuta perchè gli atleti avessero più voce in capitolo nelle decisioni che contano e non solo una mera presenza in organismi a titolo consultivo.
La succitata riflessione poi si allarga – comprendendo la leadership avida di denaro e autoritaria di certi dirigenti del karate, eredità storica di culture che hanno sperimentato dittature e servilismo – fino a diventare un resoconto pessimistico sulla deriva corrotta e antidemocratica dello sport in generale.
Per contro, una bella testimonianza di come il karate possa contribuire ad aprire la mente e a comprendere almeno in parte le ragioni degli avversari politici, viene dagli Stati Uniti e si può leggere qui.
Se passiamo al Giappone in cui è il karate è nato e si è perfezionato, non si può prescindere dal riferirsi a un saggio di Kenji Tokitsu, che nell’edizione inglese è intitolato: The Inner Art of Karate: Cultivating the Budo Spirit in Your Practice. Tokitsu sostiene che molti maestri cercano, per personale tornaconto o per quello del gruppo che rappresentano, di mantenere buone relazioni col potere politico e con i suoi apparati, di qualunque colore esso sia. Tutti questi rapporti s’intrecciano in un modo tale che, spesso, è difficile andare a fondo di ciò che succede realmente nell’ambiente – dall’organizzazione delle competizioni, ai risultati, agli scenari di allenamento. Di conseguenza, specie in Occidente dove su tutto prevale un senso degli affari prettamente capitalistico, il karate è inteso, erroneamente, svalutandolo, solo come forma di espressione fisica.
…quanto è avvenuto nel pugilato e nell’atletica, dove figure carismatiche come Muhammad Alì e Tommy Smith hanno incarnato istanze politiche e sociali, con comportamenti coerenti.
Per concludere, citiamo un’iniziativa che racchiude – almeno secondo noi – il senso di ciò che dovrebbe essere il karate in rapporto alla politica e ai politici.
La Freedom School di Capetown (Sudafrica) fondata dal Sensei Hans Meck, specialista del kyokushin, non si pone alcun problema nell’accogliere chi vuol seguire uno stile differente, perché nei dojo sono presenti maestri di Goju come di Shotokan, e ogni stile ha pari dignità. Non solo, nel manifesto che presenta la scuola è citato il significato del termine kyokushin, ovvero ‘la verità ultima’. Estranea a qualsiasi corrente o meccanismo politico e di business, anche nell’ambito delle organizzazioni sportive. L’enfasi qui è posta sull’applicazione delle tecniche, in modo da preservare le caratteristiche proprie del karate, sulla ricerca storica e sull’eliminazione di qualsiasi tipo di violenza. Per fare dell’appassionato di karate, compreso chi gareggia, per quanto non ci sia una spinta verso l’agonismo, una persona veramente libera.