Il M° Takuya Murata illustra le differenze tra due famiglie giapponesi di arti marziali.
A cura di Susanna Rubatto
La sera di lunedì 18 settembre 2017 all’auditorium Stefanini di Treviso si è svolta la seconda serata (dopo quella sul tema “Corpo e mente”) dei tre appuntamenti culturali previsti all’interno della settimana che vede dal 22 al 24 lo svolgersi dei Campionati Mondiali WSKA.
Con la partnership del Festival Filosofico “Pensare il presente”, si sono confrontati sul tema “Felicità e realizzazione. Tra filosofia, yoga, fumetti e kendo” gli ospiti di questa serata: Damiano Cavallin, direttore del Festival, Vincenzo Filosa, fumettista e traduttore dal giapponese, Patrizia Moretto, maestra di hata yoga e Takuya Murata, psichiatra e kyoshi 7° dan di kendo.
Proponiamo ai nostri lettori la parte dell’intervento riguardante il Budo del M° Murata, tralasciando a malincuore quelli degli altri ospiti, però visibili qui in streaming
M° Takuya Murata
Una cosa che l’Occidente spesso ignora è che in Giappone esistono due famiglie delle arti marziali, Bujutsu e Budo. Entrambe sono composte da due ideogrammi.
Il primo è uguale per tutt’e due:
- Bu – aggettivo che vuol dire “di origine marziale”.
Il secondo ideogramma le differenzia:
- Jutsu – significa “tecniche”.
- Do – la “via”, la vita (in cinese il Tao).
Nella prima famiglia s’imparano soprattutto le tecniche di combattimento, anche se hanno pratiche spirituali molto dure, ma sempre col fine di generare le tecniche più efficaci possibili per battere l’avversario, ferirlo o ucciderlo.
Nel Budo, questo non c’è.
C’è da dire che in Giappone il Bujutsu è in via di estinzione, mentre il Budo prosegue. Kendo, judo e sumo sono tre discipline che hanno un’unica federazione nazionale, controllata direttamente dal Ministero della Pubblica Istruzione.
Scopo della pratica del Budo è di “denudare se stessi, di affrontare se stessi” tramite le modalità di origine marziale
Scopo della pratica del Budo è di “denudare se stessi, di affrontare se stessi” tramite le modalità di origine marziale. Il senso della felicità, nello Zen, ma anche nelle arti marziali (quelle del Do), è quello di essere coerenti con l’Io interiore. Essere integri con tutte le realtà intrinseche alla dimensione ontologica della propria esistenza. Se sapremo realizzare quella sfera esistenziale, saremo felici. La Via del Budo è per arrivare a questo livello.
Faccio un esempio col Kendo (la Via della spada), che io insegno.
Nel kenjutsu sul corpo umano sono segnati più di 140 obiettivi da colpire con la spada con svariate tecniche. Nel kendo i punti da colpire sono 4, perché lo scopo della sua pratica non è quello di apprendere tecniche per annientare l’avversario, ferirlo o ucciderlo.
Nei testi federali giapponesi di Budo, non esiste alcun termine che significhi “avversario”, al massimo c’è “opponente”, ma di solito c’è scritto “compagno della pratica”, il termine avversario compare solo nei testi del Bujutsu. Questo perché nel Budo il vero avversario, semmai, siamo proprio noi stessi. Si affronta il proprio “compagno di pratica” (anche nell’agonismo, in gara), come “colui che mi mette in difficoltà” e perciò ci è d’aiuto.
Le mie parti più intime, più nascoste, si denudano più facilmente quando sono in difficoltà, di fronte a un pericolo concreto o in situazioni di combattimento in cui, molti fattori personali, psichici e spirituali, possono ostacolare l’esecuzione: dubbi, paure, sottovalutazione dell’opponente o sopravalutazione di sé ecc. Sono tante le sfere psichiche che entrano in gioco in pochissimi secondi. Qui, ogni attimo è irreversibile, non torna più lo stesso, per cui ogni attimo è da vivere istantaneamente e pienamente, nella maniera più vera e sincera possibile.
Perciò le due pratiche, Budo e Bujutsu, sono solo apparentemente somiglianti a livello esteriore, ma ciò a cui mirano è completamente diverso.
Nelle arti marziali, nelle situazioni difficili, di pericolo concreto, tutte le sfere “istintive”, come la paura, vengono in superficie, coinvolgendoci pienamente. Nella pratica del Budo si ripete questo tipo di “simulazione” (ma ogni momento diventa reale, non simulazione) e il vissuto cambia costantemente, in ogni istante.