Il vero zanshin è un enorme oceano senza fondo con un’energia latente pronta a espandersi.
Riporto la mia lezione (chiacchierata…) che ha fatto seguito a una dimostrazione pratica di calligrafia dell’ideogramma Zan-shin durante l’ultimo seminario condotto dal M° Perlati a Busana, dal 2 al 4 giugno 2017.
Prima di iniziare intendo ancora una volta ringraziare il M° Perlati che, come ogni anno, un paio di mesi prima alla programmazione di questa stage intensivo (molto intensivo!), mi chiede di trattare un tema concernente il Budo. Questo mi dà l’occasione per ricercare, cosa a me gradita, per riflettere e provare a mettere a conoscenza tutti i presenti di queste mie ricerche. Inizierò scrivendolo a pennello su carta di cm 70×135.
È quindi un concetto marziale: occorre colpire il nemico sino a quando non restano che le nude ossa.
Zan-shin 残心 Letteralmente si potrebbe tradurre:
- 残zan = a permanere, perdurare, restare
- 心shin = mente, cuore
Quindi, “il cuore che rimane”… ma rimane da cosa? Da un dopo qualcosa di tangibile, dopo un’azione.
残 ZAN – Vediamo questo kanji come viene utilizzato nel linguaggio di tutti i giorni. Ad esempio:
- 残業 zan-gyou è il lavoro straordinario, cioè quello che rimane da fare dopo la giornata di lavoro ordinaria. (Per esempio già dagli anni 70, quando le industrie giapponesi presero il volo, gli operai sistemavano le auto che erano scartate eliminando i difetti, non avendo passato il collaudo in pieno, nelle ore dopo il lavoro ordinario. Grande dimostrazione di zanshin!).
- 残雪 zansetsu è la neve che resiste all’arrivo della primavera, fondendosi lentamente nelle zone ombreggiate.
- 残月 zangetsu è la luna che rimane al mattino.
- 残光 zankou è l’ultimo riverbero del sole dopo il tramonto.
- 残暑 zansho è il calore di fine estate che permane appunto all’inizio dell’autunno.
- 残像 zanzou è l’immagine residua, è la “foto” che rimane scolpita nei nostri occhi anche dopo.
- 残念 zannen è una parola che si sente spesso parlando, è il rammarico, il rincrescimento, nen infatti è sentimento, stato d’animo, interesse, premura, ripetuto 2 volte, nennen, diventa il pensiero insistente.
L’ideogramma di ZAN ha il radicale (parte sinistra) che significa nude ossa, questo radicale lo troviamo anche in shi o morte 死. La parte destra, e si capisce meglio guardando l’ideogramma antico dove erano separate, rappresenta 2 alabarde (come avevamo già visto nel BU di BUDO alabarda + fermare).
È quindi un concetto marziale: occorre colpire il nemico sino a quando non restano che le nude ossa. Il samurai diceva: “Se mi colpisci la pelle ti taglio la carne, se mi colpisci la carne ti taglio l’osso, se mi tagli l’osso ti ucciderò!”. (Questa continua e progressiva determinazione è I 意 o risonanza della mente).
Quindi, anticamente zan era usato per distruggere, estinguere: 残虐 zangyaku significa atrocità, crudeltà; 残酷な zankokuna è l’aggettivo per crudele, spietato.
– Quante volte abbiamo visto nei film d’azione di scarso livello il “buono” che atterra il cattivo, ma appena caduto non si accerta della morte o della completa perdita dei sensi e si gira per soccorrere la “bella”, non accorgendosi che il “cattivo” si rialza e lo colpisce alla schiena… Forse per esigenze di copione, per creare un po’ di suspance… Ma gli era mancato lo zanshin! –
Zanshin è un concetto che integra presenza fisica, abilità tecnica e attitudine emotiva.
心 SHIN – l’abbiamo già visto tante altre volte ed è il cuore, la mente, quindi, “mente che rimane” e questo concetto un bravo guerriero lo utilizza sia nei momenti più difficili e confusi di uno scontro (che l’avversario ci sia fisicamente come nel kumite o simbolicamente come nel kata ), sia nei momenti quotidiani di pace.
Forse, abbiamo già trattato quel famoso aneddoto Zen del monaco esperto che in un giorno di pioggia va a trovare un vecchio saggio maestro e questi, una volta entrato il giovane trafelato monaco che chiedeva di poter praticare con lui, gli chiede: “Nell’ingresso (genkan), dove hai appoggiato il tuo ombrello? A destra o a sinistra?” e all’esitazione del giovane, sorride… Gli era mancato lo zanshin…
Quindi, possiamo dire che zanshin è un concetto che integra presenza fisica, abilità tecnica e attitudine emotiva. Indica una calma vigile. Potremmo dire: l’azione in situazione di riposo.
Mentalmente è la qualità della diffusione, una persistente consapevolezza di tutto che traspira senza focalizzarsi, e perciò distrarsi, su un singolo fenomeno. (Avevamo già trattato il termine kime indicando la focalizzazione più che la contrazione che purtroppo spesso diventa sinonimo di rigidità).
Quando un esperto si muove con decisione la sua tecnica sembra vibrare anche quando l’azione è già conclusa, come il suono di una campana che ci lascia la sua eco echeggiare ancora dopo il rintocco.
Nella calligrafia, accanto ai kanji di zanshin ho tracciato questo mio haiku:
技のあとwaza no ato 5 dopo la tecnica
また震えるかな mata furueru kana 8 ancora vibra
心だけ kokoro dake 5 solo il cuore.
In italiano potrebbe leggersi: “Dopo la tecnica, solo il cuore continua a vibrare”.
Come espressione fisica invece lo zanshin si manifesta attraverso una posizione rilassata, ma vibrante di potenziale energia.
Non dobbiamo quindi scambiare l’espressione feroce del principiante e una sua posizione aggressiva come zanshin. Questa è una caricatura che oltretutto non può essere mantenuta a lungo e che richiede un inutile sforzo, mentre il vero zanshin non assomiglia a uno tsunami, che in attimo dimostra tutta la sua aggressività distruttiva, ma più a un enorme oceano senza fondo con una energia latente pronta a espandersi.
Quando per tanden 丹田 indichiamo un punto appena sotto all’ombelico in realtà dovremmo specificare quale. Infatti, abbiamo realmente 3 punti di tanden (corrispondenti ai chakra dello yoga):
- il jodan tanden上段丹田 (tra gli occhi)
- il chudan tanden 中段丹田 (cuore)
- il seika tanden臍下丹田 (sotto l’ombelico) chiamato anche kikai tanden 気海丹田o oceano del ki.
Quando un esperto si muove con decisione la sua tecnica sembra vibrare anche quando l’azione è già conclusa, come il suono di una campana.
Nel combattimento con più avversari, ad esempio, focalizzarsi su uno solo di essi è pericoloso. Ugualmente, anche nell’arbitraggio, sia di kumite sia di kata a coppie, focalizzarsi su un singolo atleta non ci fa vedere il “tutto”.
Nella vita quotidiana prima abbiamo trattato il suono, ma potremmo trattare alla stessa maniera il momento del pasto. Qualsiasi nutrizionista in un congresso, oltre a dire cosa scegliere di mangiare e in che quantità ecc. sottolineerà di masticare adagio per assaporare a pieno e gustare il cibo senza distrazioni (ce lo diceva anche la nonna: mangia adagio!), ma ci inviterà anche a non alzarci immediatamente e a rivolgerci subito in altre faccende… anche questo è zanshin.
Nel seguire lezioni di qualsiasi natura, sia teorica sia pratica, è un invito a far sedimentare le nozioni dentro di sé e non a scappare da una materia a un’altra, che purtroppo fa parte del nostro agire in questa epoca.
Nell’incontro con le persone (ricordate quando trattammo ichi go ichi e?) è necessario mantenere un contatto se non corporeo almeno visivo dell’altro. Ogni volta che esco o sono uscito da una casa giapponese arretrando di schiena, sino al punto in cui girandomi, sparisco dalla vista fisica, reale dell’ospite, sento quelle fessure che mantengono lo sguardo su di me, così esco sentendomi ancora protetto come quando ero ospite protetto dentro alla casa. Questo lo posso riportare al quando esco dal dojo: lascio di schiena un luogo “protetto” dove, a partire dalla foto del fondatore, dei grandi maestri del passato, al mio maestro, ai senpai ai compagni di corso, tutto è stato ed è per farmi crescere, per mettermi alla prova, per farmi conoscere e ri-conoscere, dove trovo l’altro, dove trovo me, dove fondo e confondo l’altro con me…
Questa mattina abbiamo allenato un TAIDA: da solo eseguo il tutto come kihon, tutte e due le parti, poi mi metto di fronte al partner e ognuno fa la propria metà, il proprio ruolo.
Anche in psicologia questi concetti sono connessi. Quando un neonato viene al mondo ha bisogno di fare una profonda esperienza di fusione con la mamma (o il caregiver, “colui che dà le cure”) prima di poter gradualmente fare esperienza di progressiva autonomia, fino alla separazione e all’età adulta. E dopo, dove finisce la mamma che fisicamente non c’è? Dove finisce quel senso di sicurezza trasmesso da quella profonda relazione fatta di corpo, scambio, ritmo, sguardo, reciprocità e costante attenzione? Rimane dentro e lì viene mantenuta. O così ci auspichiamo.
Tutti conosciamo la storia di Linus: lui porta sempre con sé la famosa coperta (ahh quando è in lavatrice!) che in psicologia viene chiamato l’oggetto transizionale. Fino a una certa età è normale avere un oggetto di transizione (un ciuccio, un fazzolettino con l’odore della mamma, un pupazzo o un giocattolo ricco di significato ecc). Questo oggetto serve da accompagnamento tra la dipendenza e l’autonomia dalla mamma, prima che la presenza della madre stessa possa essere interiorizzata. Tuttavia Linus era già grandicello… era già entrato nella patologia, probabilmente gli è mancato lo zanshin. Quella possibilità di essere soli senza sentirsi soli, perché la presenza dell’altro può perdurare dentro di noi anche nei momenti di solitudine, cosa fondamentale per l’autonomia. La possibilità di sentire o rievocare l’altro anche se non è fisicamente ancora qui con me: la presenza nell’assenza.
L’essere umano è socievole e geneticamente è fatto per stare con gli altri. – Chi non ricorda il film ”Cast away” dove un pallone diventa un Wilson con cui chiacchierare? Confrontarsi con un Wilson che nella sua creazione contiene tante simbologie: l’impronta della mano, del sangue del protagonista! –
Non dobbiamo quindi scambiare l’espressione feroce del principiante e una sua posizione aggressiva come zanshin.
Ecco che nel taida riconosciamo questi concetti che sono, tra l’altro, alla base dell’empatia (dal greco en=dentro e pathos=sentimento, sofferenza). Essere da solo nel fare una cosa, ma sapere che l’altro ha comunque un ruolo nella mia vita. E così posso mettermi nei suoi panni facendo cambio di ruolo e riformare il tutto. Ricreare quella dualità: “sé-altro” così fondamentale per la nostra vita, quella che in psicologia viene chiamata intersoggettività. Noi non esistiamo in senso assoluto (dal latino solutum-ab cioè sciolto da).
A volte mi è capitato che, preparando una dimostrazione per il pubblico, un allievo, magari ingenuamente, mi dicesse: “Ma se anche facciamo così… tanto, chi lo capisce?”. No!! Io penso sempre che tra il pubblico ci sia il M° Shirai che ci guarda! Perché è una figura che è già sempre presente.
Pensate che da studi neuro-scientifici di fine anni 90 proprio qui vicino a noi, in quel di Parma (Gallese e Rizzolatti), si è dimostrato che osservando un individuo che compie un’azione si attivano in entrambi le stesse aree cerebrali (neuroni motori), quindi, osservare (un individuo della nostra stessa specie) significa imparare. Questo i maestri dell’oriente lo sapevano già chiedendo agli allievi di imparare guardando loro.
Ecco che nel taida ricostruiamo entrambi i ruoli per formare il tutto, per sentire com’è la mia parte e anche la parte dell’altro (come si sta nei suoi panni?). E mentre agiamo una parte dobbiamo mantenere la coscienza di cosa sta facendo l’altro, fino al vero e proprio kumite – incontro di mani – in cui io e l’altro, scambiandoci i ruoli, possiamo fare esperienza di entrambe le parti. In altre parole, di noi stessi.
Anche quando facciamo un kata o un kihon, in realtà non dovremmo sentirci “soli”, ma percepire l’altro… altrimenti facciamo solo ginnastica!