Educazione giapponese – L’infanzia, i ricordi e la vita di Yumi Shirai, figlia del Maestro Hiroshi Shirai.
Di Susanna Rubatto
Yumi Shirai (5° dan), nata a Milano nel 1976, si definisce una persona solare e devo dire che anche dall’intervista che ci ha gentilmente concesso via telefono, la sua personalità si percepisce così: aperta, immediata, senza sovrastrutture, facilmente incline al riso e al sorriso.
Intervistare Yumi, che pazientemente e generosamente ha accolto la nostra richiesta di ripercorrere anche la sua infanzia, è stata l’occasione per “entrare” nella famiglia di un giovane Hiroshi Shirai e conoscerlo anche in aspetti più quotidiani. Un quadro familiare dove l’educazione giapponese ha trovato, grazie alla presenza della Sig.ra Adelangela Zoia, nel suo ruolo di moglie e di madre italiana, un degno contraltare.
Il karate è stata una vera e propria educazione, non una scelta. Ha fatto naturalmente parte delle nostre vite.
Grazie Yumi per il tempo che ci concedi in questa intervista. Per iniziare, prendo spunto proprio da un’intervista precedente che tu stessa hai fatto a tua sorella Yuri (in KarateDo n.6, 2007) dove accennasti alla vostra “educazione giapponese”. Da allora questa espressione mi ha sempre incuriosita… Esattamente, cosa intendevi?
Mi riferivo ai valori del Karate e della cultura giapponese che mio padre ha trasmesso a noi tre figli sin da piccoli. Io e Yuri durante l’infanzia ci siamo fatte molta compagnia, perché condividevamo gran parte delle nostre esperienze visto che come età ci separano solo due anni scarsi, mentre nostro fratello Yoshi è nato con più distacco da noi. Questo, indubbiamente, ci ha aiutate ad “affrontare” insieme l’educazione giapponese di nostro padre, rendendo le cose più semplici e anche divertenti. Mio papà, infatti, ha allenato prima solo noi due sorelle e poi anche mio fratello Yoshi, all’età di circa tre anni, ha iniziato ad allenarsi con noi. Quando io e Yuri abbiamo ottenuto la cintura nera (all’epoca io avevo circa 15 anni) abbiamo iniziato il corso degli adulti/amatori che mio padre tiene tutt’ora presso la palestra di via Friuli a Milano, mentre mio fratello Yoshi ha continuato sia ad allenarsi da solo con mio papà sia a frequentare un corso con altri bambini tenuto dal M° Dario Marchini.
Quali ricordi hai delle tue precoci lezioni con il Maestro Shirai?
Sicuramente, nonostante l’età precoce, non erano lezioni che definirei “ludiche”. Io e mia sorella sentivamo, pur senza rendercene conto più di tanto, che nostro padre voleva trasmetterci qualcosa, una vera e propria disciplina. Ricordo gli inizi in casa, quando io e Yuri non avevamo ancora il karategi, ma indossavamo la tuta da ginnastica, e mio padre spostava i mobili della sala facendo una specie di palestra in salotto, dopodiché iniziavamo a praticare.
Il papà Shirai è stato un Maestro severo con voi?
Certamente! È stato molto severo. Mio padre ci faceva fare cose semplici, ma in maniera molto “profonda”: la posizione, ad esempio, dovevamo eseguirla in modo perfetto… E per un bambino di cinque anni tenere posizioni come zenkutsu dachi o kiba dachi in modo preciso e per un tempo lungo, mentre il maestro ti sistema il piede o ti schiaccia la gamba, non è proprio facile né piacevole! [E su questo ricordo Yumi fa una delle frequenti risate che hanno intercalato questa intervista].
Tu e Yuri avete mai avuto momenti di ”ribellione giovanile”?
Ovviamente ne abbiamo avuti, ma perlopiù indipendenti dal karate. Come normalmente succede, con pianti e litigate adolescenziali, la ribellione è stata più verso nostro padre che verso il “maestro”.
Nonostante ciò, il karate è sempre rimasto un punto fermo, stabile, perché a nessuna delle due è mai venuto in mente di non fare karate, era troppo insito nelle nostre vite. Per noi era un gesto quotidiano, come può esserlo il mangiare o il dormire, era una parte di noi che non abbiamo mai messo in discussione.
Hai praticato anche altri sport?
Grazie alla mamma, siamo andati tutti gli inverni a sciare e poi io mi sono appassionata anche allo snowboard che, appena posso, pratico. Mentre d’estate ho imparato il windsurf, mi piace moltissimo nuotare e fare immersioni subacquee. Devo dire che per queste esperienze mia madre è stata fondamentale, perché, seppure a volte deve essere stato un po’ impegnativo per lei, ci ha sempre stimolato a provare e a imparare altri sport oltre al karate.
… mio padre delle mattine ci portava in salumeria e noi figli “impazzivamo”, perché lui, essendo il primo a essere goloso, ci faceva fare dei grandi panini al prosciutto!
Dato che hai citato tua madre, posso chiederti come si sono conosciuti i tuoi genitori?
Si sono conosciuti grazie a mio zio Luigi Zoia, fratello di mia mamma che, dopo essere rimasto “folgorato” dall’avere visto a Milano la manifestazione di Karate al Palalido nell’ottobre del 1965, ha immediatamente iniziato a praticare Karate col M° Shirai presso la palestra del Judo Club Jigoro Kano di Via Solari, del M° Roberto Fassi a Milano.
Nel tempo lo zio e mio padre divennero amici, tanto che il primo aprì la propria palestra in via Piacenza (zona in cui abitava tutta la famiglia di mia madre), in alcuni locali di mio nonno Giacomo, dove mio papà cominciò a insegnare. Da qui è poi nata la palestra Renshukan Karate Club.
Per queste ragioni e questa vicinanza è quindi stato inevitabile che i miei si siano conosciuti. Anche perché molti membri della famiglia iniziarono a praticare karate, mia madre compresa, tanto che lei ha preso la cintura nera col M° Kase.
Come ricordi la tua infanzia e il periodo scolastico?
Ho dei bei ricordi della mia infanzia e del mio percorso scolastico. Qualche volta, da piccola, mi sentivo “diversa” ad avere il nome e il cognome giapponesi, poi, quando sono diventata più grande, mi sono accorta di come il mio nome fosse originale e particolare.
Per quanto riguarda la pratica del karate, né io né mia sorella avevamo agli inizi una passione particolare: se non avessimo avuto per padre il M° Shirai, non penso che lo avremmo praticato. In realtà è stato un percorso che entrambe abbiamo iniziato senza porci troppe domande (parte essenziale dell’educazione giapponese cui ho accennato prima). Non è facile da spiegare, forse raccontando un episodio mi faccio capire meglio: ricordo che mio padre si era arrabbiato con noi due per motivi che non rammento e, per punizione, ci disse che avrebbe interrotto le lezioni di karate. Così, per una decina di giorni, io e Yuri non abbiamo fatto il solito allenamento e per questa ragione eravamo tristissime! Eravamo davvero dispiaciute per la perdita di qualcosa che, senza accorgerci, ci rendeva felici.
Il karate è stata una vera e propria educazione, non una scelta. Ha fatto naturalmente parte delle nostre vite. Un po’ come andare a scuola: anche se non sempre si ha voglia, comunque è un percorso che si fa.
Inoltre, è stato un modo per trascorrere del tempo con il papà, perché, dopo i compiti scolastici, due volte a settimana facevamo l’allenamento insieme.
Comunque, al di là dell’insegnamento in sé, vivere la quotidianità con il papà era sempre un allenamento! [Ride di gusto]. È indubbio che il suo modo di fare fosse diverso da quello di mia madre: lui per noi era un papà “particolare”.
Tutta la sua visione del karate era applicata anche in famiglia, lui non faceva distinzione tra il karate e la vita quotidiana. I principi del karate si applicavano ai nostri comportamenti, in ogni momento: da come dovevamo rispondere, a come riordinavamo, ai nostri atteggiamenti con le persone.
Devo dire che col passare del tempo e rispetto a com’era con noi figli, mio padre ora mi sembra cambiato, soprattutto quando è con le nipotine Akemi e Natsumi (le figlie di Yuri e Silvio Campari), si è addolcito moltissimo, è più “morbido”… ma credo che questa sia un po’ una cosa comune a tutti i nonni!
… credo che l’atteggiamento mentale e la forza di spirito siano i più grandi valori che mio padre ha saputo trasmettermi attraverso la pratica del karate.
Tu parli giapponese?
No, mio padre non ce l’ha insegnato, per lui è stato sicuramente più importante trasmetterci il karate.
È anche vero che mio papà era sempre molto impegnato a insegnare karate sia durante la settimana sia nei week end. (Giusto adesso inizia un po’ a diminuire gli impegni… ma giusto un po’…).
L’educazione giapponese ha mai colliso con l’educazione italiana?
Sicuramente c’è una diversità culturale profonda tra i miei genitori, ma al tempo stesso c’è anche un legame molto forte che li tiene tuttora uniti nonostante siano passati tanti anni. Noi figli siamo stati certamente “aiutati” dalla presenza di una mamma italiana, dalle sue attenzioni e da tutto ciò che poteva darci, essendo anche stata la più presente a casa con noi. Penso che, come tante mamme, ci sia stata più vicino nelle piccole cose del quotidiano, dai rapporti con la scuola e gli insegnanti, alle vicende più pratiche, come poteva essere per esempio l’acquisto dei vestiti. Poi, a noi figli sembrava che lei avesse una sorta di connessione col papà, per cui, per le cose “importanti” interveniva anche lui.
Anche nelle dimostrazioni affettuose, mio padre e mia madre erano molto diversi. Per esempio, mio padre delle mattine ci portava in salumeria e noi figli “impazzivamo”, perché lui, essendo il primo a essere goloso, ci faceva fare dei grandi panini al prosciutto! Spesso ci preparava il pesce crudo o cucinava la carne alla griglia. Anche a questo riguardo, nella nostra famiglia c’è sempre stata la “doppia cucina”: mia madre cucinava italiano e, contemporaneamente, mio padre (che è un grande appassionato) preparava altri piatti. Alla fine c’era sempre, ma anche tuttora, molto da mangiare! Ancora oggi, i miei genitori fanno la spesa insieme ed entrambi cucinano cose diverse. Mio papà ama molto sia la cucina italiana sia la cucina giapponese e in generale è molto “aperto” dal punto di vista culinario, anche perché ha sempre viaggiato molto.
Quali valori senti che ti ha trasmesso il Maestro Shirai?
La pratica del karate allena il corpo, ma anche la mente e lo spirito: credo che l’atteggiamento mentale e la forza di spirito siano i più grandi valori che mio padre ha saputo trasmettermi attraverso la pratica del karate, una pratica che ho iniziato insieme a lui sin da piccola e che dura tuttora, per una sorta di filo invisibile, ma al tempo stesso molto tenace.
La costanza nella pratica ha fatto quindi la vera differenza perché, allenamento dopo allenamento, ha contribuito a sviluppare la mia personalità e a fare sorgere in me la curiosità anche per gli aspetti filosofici e spirituali delle arti marziali.
L’atteggiamento mentale che mi è stato insegnato sin da piccola è quello di dare sempre il massimo in ogni cosa che faccio, sia nei piccoli gesti della vita quotidiana sia nel lavoro: indipendentemente dalle condizioni esterne vorrei riuscire a rimanere sempre entusiasta, essere capace di concentrarmi più sulle soluzioni che sui problemi e agire con una mente positiva. Non è sempre facile, ma se ci riesco mi rendo conto di quanta nuova energia si crea e di come sia possibile stare bene ed essere felici anche in modo semplice.
Il karate, personalmente, mi ha dato moltissima fiducia nel credere che gli obiettivi e i sogni si possano raggiungere. Inoltre, soprattutto quando si è piccoli, è importante imparare la forza di perseverare anche nei momenti faticosi e difficili, perché in quel momento si inizia a percepire qualcosa dello spirito del karate.
Ritieni che per arrivare a questo atteggiamento mentale ci debba essere a priori un percorso interiore da fare?
Sicuramente in me c’è stato, ma sottolineo che è la conseguenza di avere praticato tanti anni il karate: l’apprendimento di un kata, di una posizione o di una qualsiasi tecnica di karate, allena il corpo a uniformarsi a qualcosa di nuovo che poi ha anche delle conseguenze interiori. Si arriva a un momento in cui ci si rende conto di avere forgiato il corpo, ma anche la mente e lo spirito perché sono collegati. L’allenamento con mio padre, soprattutto quando ero piccola, è stato certamente faticoso, a volte fino al pianto, perché lui pretendeva sempre il massimo ed era molto severo. Per di più c’era sempre la questione che un conto è se ti sgrida un maestro e un altro è se quel maestro è anche tuo padre, che – per esempio – ti rimprovera se non hai ‘caricato’ correttamente un calcio o se invece l’hai tenuto a trenta gradi piuttosto che a quarantacinque… Alla fine però questi primissimi allenamenti hanno forgiato il mio carattere, trasmettendomi quei valori e quell’atteggiamento mentale per cui dare il massimo, rimanendo sempre presenti a se stessi, anche nelle piccole cose.
Indipendentemente dalle condizioni esterne vorrei riuscire a rimanere sempre entusiasta, essere capace di concentrarmi più sulle soluzioni che sui problemi e agire con una mente positiva
Secondo te, in questo atteggiamento che costringe a lavorare sui propri limiti senza essere finalizzato a una “vittoria”, se non quella di sapere che in quel momento si è dato il massimo e si è poi pronti ad “alzare l’asticella”, potremmo ravvisare una differenza con le motivazioni alla base della ricerca che si fa nel karate sportivo?
Assolutamente sì! Ad esempio, del mio percorso mi piace il fatto di avere iniziato a fare le gare tardi, come età, però di essermi sempre allenata, anche in precedenza, con lo stesso spirito. A circa vent’anni iniziai ad allenarmi, pur non facendo gare, anche quattro giorni a settimana con mia sorella, che invece faceva le competizioni. L’agonismo è subentrato dopo. Ciò mi ha consentito di allenarmi avendo come unico scopo la pratica, permettendomi di apprezzare a pieno l’arte marziale, indipendentemente quindi da un obiettivo agonistico. Rispetto al karate sportivo l’ottica è quella di amare l’arte marziale e di continuare a praticarla. Ho visto “sparire” tanti atleti dai dojo dopo che hanno concluso la loro attività agonistica, mentre il bello, per me, è proprio quello di riuscire a trovare un senso nel “praticare karate tutta la vita”.
Detto questo, vorrei anche precisare che per me l’esperienza agonistica è stata fondamentale, mi ha stimolato ad andare ancora più in profondità nelle tecniche, ad allenarmi con tutta me stessa per ottenere un risultato agonistico che sicuramente non è il fine ultimo della pratica di un’arte marziale, ma certamente è uno strumento che consente un continuo miglioramento personale, perché in una competizione ti metti in gioco confrontandoti con gli altri e soprattutto provi emozioni molto forti che piano piano, con il tempo, impari anche a controllare.
Pensi che il karate della FIKTA sia cambiato da quando l’hai iniziato tu?
Sicuramente è cambiato e si è affinato. Negli ultimi anni si è sviluppato maggiormente l’ambito dei bunkai e delle applicazioni. Credo che una persona che abbia praticato karate 30/40 anni fa, se dovesse riprendere oggi, farebbe fatica a seguire tutti gli aspetti nuovi che sono stati introdotti. Io stessa ancora non conosco tutti i bunkai!
Tutta la generazione che fa parte della storia della nascita del karate italiano, mi ha sempre parlato di allenamenti molto intensi e durissimi, di grande tensione. Penso a maestri come il M° Carlo Fugazza, che è stato uno dei primi allievi del M° Shirai e lo è tuttora, che hanno vissuto un percorso di continuo cambiamento. Certo, il karate degli albori era appena arrivato in Italia ed era necessario fare tanto lavoro “fisico” poi, una volta acquisita la tecnica, c’è stata l’esigenza di approfondirla e di creare cose nuove, ma fondamentale rimane la precedente fase di consolidamento delle tecniche di base.
Ritornando al tuo percorso personale, quali sono stati i tuoi studi?
Ho frequentato il liceo classico, il Berchet a Milano, e mi è piaciuto molto. Nonostante che al terzo anno abbia avuto un momento di crisi con una nuova professoressa, per cui avevo l’insufficienza proprio in italiano e latino… ma con quell’atteggiamento mentale di cui ho parlato, non ho mollato (come molti compagni che cambiarono addirittura scuola) e studiando come una matta, alla fine l’italiano è diventata la mia materia preferita. Devo dire che è stata una scuola che mi ha aperto la mente.
Dopodiché, ho scelto la facoltà di Giurisprudenza che in realtà – durante gli studi – non mi è piaciuta molto, ma poi mi sono appassionata di più, durante la pratica di avvocato, alle materie penali, perché hanno degli aspetti di maggiore attenzione alla persona e ai risvolti psicologici. Dopo il superamento dell’esame di stato, ho lavorato presso alcuni studi legali, finché nel 2012 ho aperto il mio studio. Ora la mia scelta universitaria e tutto il tempo passato sui libri hanno finalmente trovato un senso e sono contenta di poter applicare quanto ho appreso per aiutare le persone.
Rispetto al civile, il percorso del penale mi coinvolge molto di più, perché occorre sviluppare un’attenzione particolare anche per le libertà fondamentali e i diritti umani. Anche in questo ambito ho fatto mio quell’atteggiamento mentale di cui parlavo, che mi permette di avere una maggiore fiducia in me stessa anche nelle situazioni di responsabilità.
Il karate, personalmente, mi ha dato moltissima fiducia nel credere che gli obiettivi e i sogni si possano raggiungere.
Dal tuo punto di vista professionale, dove puoi avere avvicinato casi di violenza di genere, ritieni che conoscere il karate o la difesa personale possa essere utile per una donna?
Credo che la vera forza del karate, come strumento di difesa, sia prima di tutto una forza a livello psicologico e, quindi, è nuovamente l’atteggiamento mentale per me a venire prima della tecnica. In ordine a questo tema mio padre mi ha sempre insegnato che prima di tutto bisogna prevenire, evitando di trovarsi in situazioni di possibile pericolo e di rischio di aggressione; in secondo luogo, quando ci si trova già nel pericolo, la cosa migliore da fare, se è possibile, è fuggire velocemente!
Io stessa non so dire come reagirei in una situazione di pericolo, anche se penso che in un karateka possa scattare una reazione di difesa più istintiva rispetto a chi non è abituato al contatto fisico. Per quanto riguarda quello che posso vedere nel mio lavoro, nei casi di violenza, anche solo psicologica, certe situazioni si creano perché spesso c’è una persona che si pone nell’atteggiamento della vittima, circostanza che sembra “attirare” l’attenzione dell’aggressore… Aggressore e vittima, paradossalmente, appaiono come due poli che si attraggono. Quindi, dal mio punto di vista, anche un atteggiamento più determinato e indipendente della donna potrebbe prevenire un’eventuale aggressione.
Riguardo ai corsi di difesa personale, ritengo che possano essere efficaci se attraverso gli allenamenti, nella costanza e nel tempo, si riesce a costruire uno spirito forte che – secondo me – è la base fondamentale di ogni tecnica di difesa.
In questo senso, penso anche che imparare fin da piccoli il karate, con tutti i valori di cui è portatore, può dare un risultato migliore per quanto concerne il controllo della propria emotività, soprattutto nei momenti di difficoltà e di panico. D’altra parte un genitore non deve pensare di fare praticare il karate solo perché il figlio sappia difendersi dopo avere imparato qualche tecnica (magari anche solo dopo pochi anni di pratica!): chi pensa così, secondo me, non ha capito cos’è realmente il karate.
Ti alleni ancora con il Maestro Shirai?
Una volta alla settimana mi alleno con mio padre nella palestra di via Friuli a Milano, mentre altre due volte mi alleno con il M° Silvio Campari e il gruppo di agonisti della YAMA KARATE CLUB MILANO, dove iniziai la pratica verso i 23 anni. Praticare insieme al gruppo degli agonisti della Yama è stato come incontrare una nuova famiglia: grazie a mia sorella Yuri e a Silvio ho avuto la fortuna di vivere l’esperienza agonistica e di fare parte di una squadra forte di agonisti e di amici.
Quanto è durato il tuo percorso agonistico?
Ho fatto la mia prima gara nel 2002, con un kata a squadre assieme a mia sorella e a Katia Schiavi, dove siamo arrivate prime. Invece, l’ultima gara è stata la Coppa Shotokan del 2011 dove sono arrivata seconda nel kumite individuale, concludendo così, con tantissima soddisfazione a 35 anni, il mio percorso agonistico.
Ricordo con immenso piacere i Campionati italiani di kata e kumite a squadre, specialmente quelli con Yuri e Katia. Sono stati anni bellissimi, in cui ci siamo sempre allenate molto, e loro sono state sempre un grandissimo punto di riferimento per me.
Un’altra gara che mi è sempre piaciuta molto era l’Enbu, sia per il tipo di allenamento, sia per il tipo di gara che ho fatto sempre in coppia con Giorgio Luciani, mio amico e compagno di palestra.
Tra le specialità in gara prediligo il kumite, mentre la ripetitività dell’esecuzione richiesta dalla preparazione di una gara di kata non mi ha mai entusiasmato… Invece, la pratica del kata indipendentemente dalla gara, insieme allo studio approfondito dell’applicazione e del bunkai, mi piace moltissimo.
Penso che imparare fin da piccoli il karate, con tutti i valori di cui è portatore, può dare un risultato migliore per quanto concerne il controllo della propria emotività, soprattutto nei momenti di difficoltà e di panico.
Il cognome Shirai ha mai condizionato i tuoi rapporti con gli altri karateka?
Con i miei compagni di palestra non ho mai avuto nessuno di questi problemi, anzi. Per me la Yama è come una famiglia e devo proprio al legame di amicizia, che si è andato creando, la nascita della mia passione per l’agonismo, quale desiderio di fare parte di un gruppo forte con cui allenarsi, fare le trasferte insieme e insieme gareggiare, condividendo le emozioni delle gare e momenti bellissimi, indimenticabili.
Yuri resta la persona che ringrazio per avermi sempre stimolato, con il suo esempio e la sua passione, a intraprendere questa strada.