Dopo anni di pratica, ho ancora lo stesso stato d’animo entusiasta nell’affrontare la lezione di karate?
Spesso nella vita di tutti i giorni facciamo diverse esperienze: molte hanno un carattere ripetitivo, mentre altre sono assolutamente nuove.
In genere si è un po’ restii a fare esperienze nuove, perché non si sa a cosa si va incontro e quando non si conosce, nasce in noi un senso di insicurezza.
Ciò che spesso ci angoscia è il dubbio, l’incertezza: il non riuscire a calcolare la ricaduta di una scelta non ci fa stare sereni.
Però il fatto di non rischiare, di adagiarsi su una serie di eventi calcolati, ci fa perdere una grande occasione, quella di evolverci. Cioè, se da un lato abbiamo delle certezze che apparentemente ci fanno stare bene, dall’altro rinunciamo a scoprire delle nuove conoscenze che possono portare a orizzonti da noi non contemplati.
Per fortuna però, nella storia alcuni grandi personaggi hanno infranto la barriera dell’abitudine e così ci sono state le grandi scoperte in campo scientifico. Se si vuole crescere e lasciare il certo per l’incerto, questa prassi è una cosa inevitabile.
Abitudine è un termine che viene usato per indicare sia le attività motorie, sia le attività mentali che, dopo numerose ripetizioni, vengono svolte in modo relativamente automatico…
Ma cos’è l’abitudine?
Dal latino habitudo, significa avere un’attitudine acquisita mediante un’esperienza ripetuta e questa disposizione è insita nel comportamento umano e nel mondo animale.
Abitudine è un termine che viene usato per indicare sia le attività motorie, sia le attività mentali che, dopo numerose ripetizioni, vengono svolte in modo relativamente automatico con maggior facilità e coordinazione.
In psicologia e pedagogia l’abitudine viene classificata come meccanismo psicologico messo in moto dalla persona per adattarsi in maniera più idonea all’ambiente che la circonda. L’abitudine è quindi uno dei fattori che contribuisce in modo più marcato alla formazione del carattere sin dalla prima infanzia.
L’abitudine nasconde delle insidie che sono: il “difetto di volontà” o la “prevalenza del sentimento”. Nel primo caso, praticamente prevale la pigrizia, mentre nel secondo caso l’attaccamento. Quando si è pigri non si ha voglia di cambiare, non si accoglie l’innovazione; quando c’è attaccamento si fanno prevalere i sentimenti, si perde la lucidità per fare nuove scelte, si rimane ancorati al proprio modo di pensare che spesso porta al pregiudizio.
Oppure, ci può essere un terzo caso che è quello relativo al fatto che si continuano a fare le stesse cose perché “solo quelle so fare“. – Non seguo gli aggiornamenti proposti, non sono in grado di fare della vera ricerca con un atteggiamento rivolto ad approfondire il mio studio. –
L’atteggiamento del vero ricercatore, soprattutto nel campo del Karate Tradizionale, come in tutte le discipline giapponesi, passa dal principio SHU-HA-RI.
SHU è la base e possiamo paragonarlo alle lettere dell’alfabeto. Ricordo ancora quando, in prima elementare, ho riempito pagine di lettere in stampatello e in corsivo, minuscole e maiuscole. Quando ho allenato innumerevoli volte la base, posso cominciare a pensare di comporre delle parole, poi delle frasi e infine dei periodi sotto dettatura, fino a dei temi. Sono nella fase di HA.
Sia SHU che HA non hanno un tempo fisso di durata, variano da apprendimento ad apprendimento e da persona a persona.
Quando entro in RI mi colloco in una dimensione infinita… Dovrebbe durare tutta la vita. Giunto a questo terzo stadio, RI, ho maturato al massimo la mia esperienza e la mia sensibilità. Sono realmente in grado di realizzare, con il mio studio, un’opera d’arte e, per rimanere all’esempio letterario sono in grado di scrivere un libro, di comporre poesie o, se sono giornalista, di realizzare articoli di un certo spessore. Oppure, sono in grado di interpretare e valorizzare SHU e HA e posso permettermi anche di personalizzare ciò che eseguo.
Se trasliamo gli stadi di SHU-HA-RI nel Karate Tradizionale è facile fare una comparazione.
Per quanto riguarda SHU posso pensare alle singole tecniche di base, alle posizioni e mettendo tutto insieme si realizza il KIHON.
Nel secondo stadio, HA, si possono mettere tutte le varie composizioni di KIHON propedeutiche per il KATA e per il KUMITE; quindi lo studio del KATA (completo di Bunkai, cioè di applicazione) e del KUMITE.
L’unica speranza è che chi è Maestro trasmetta ciò che è importante per lui (dalla sua ricerca e il raggiungimento della sua fase RI), ma anche per la crescita del suo allievo, e non ricada nell’abitudine, nel fare sempre le solite cose.
Nello stadio di RI si entra in una dimensione particolare, nella quale tutto diventa ricerca pura, sperimentazione. Si approfondiscono gli stadi di SHU e HA e si riesce a creare il proprio Karate, il proprio modo di fare e di interpretare una tecnica o un KATA. Qui c’è il vero significato, quello originale, di Tokui waza e Tokui kata.
Sicuramente, questo stadio lo si raggiunge con molti anni di pratica, ma molte volte non bastano gli anni di pratica e le lezioni col proprio Maestro. Ci vogliono i giusti stimoli e la voglia di approfondire. Lo stato d’animo positivo e la voglia di evolversi sono fondamentali per la propria crescita.
È solo lo stimolo interno che può portarmi a migliorare e a cambiare. Quindi, non è importante ciò che faccio, ma come lo faccio.
Ogni Maestro quando propone una pratica lo fa perché vuol trasmettere un qualcosa. Vuol trasmettere senz’altro qualcosa legato alla tecnica, ma sicuramente qualcosa legato alla sua persona, al suo modo di essere. Infatti, i Maestri non sono tutti uguali.
L’unica speranza è che chi è Maestro trasmetta ciò che è importante per lui (dalla sua ricerca e il raggiungimento della sua fase RI), ma anche per la crescita del suo allievo, e non ricada nell’abitudine, nel fare sempre le solite cose.
E qui la cosa diventa sottile, perché: cosa si intende per “solite cose”?
I Kata dello Shotokan sono quelli, non è che posso inventarmene altri…
Se parliamo di Kata possiamo dire che ci sono infiniti Bunkai e, quindi, se non guardo la mera esecuzione o sequenza, le cose già cambiano.
Perciò, di nuovo, non è che cosa faccio, ma come lo faccio.
Un Taikyoku Shodan (primo kata, previsto come punto di partenza per chi inizia a praticare Karate) è uguale sia che stia vivendo la mia fase SHU, sia che stia vivendo la mia fase HA, sia che stia vivendo la mia fase RI, ma è importante come lo eseguo o lo spiego ai miei allievi. E, mentre lo sto eseguendo, come lo vivo e cosa sento dentro, e quindi varia a seconda di quanto l’ho masticato, digerito e metabolizzato. Però, rimane sempre Taikyoku Shodan.
È solo lo stimolo interno che può portarmi a migliorare e a cambiare. Quindi, non è importante ciò che faccio, ma come lo faccio.
Mentre una cosa che a primo acchito sembra molto variegata e ricca, poi di fatto non lo è, anche se più diluita nel tempo e magari non monotona come l’esecuzione dello stesso Kata per molto tempo.
Mi spiego meglio, ad esempio mi viene in mente una programmazione annuale delle attività nella propria palestra. Magari si fanno tante cose, ma negli anni sono sempre quelle e qui è difficile capire che c’è la minaccia dell’abitudine. Eppure, ripeto tutte le cose meccanicamente, anche se l’attività prevede lezioni settimanali in palestra, stage, gare, esami, campi estivi e altro ancora.
È qui che ‘entra in ballo’ un termine a me molto caro, che ho sentito dire poche volte e in modo distorto in tanti ambienti. Questa parola è il termine “passione”.
È un termine molto importante e sono convinto che oltre che essere un buon antidoto per l’abitudine, è anche ciò che ci ha fatto fare il Karate Tradizionale per vari decenni e ciò che ci ha fatto superare, a volte anche inconsapevolmente, le tante difficoltà che ci si sono presentate.
Che bello avere lo stesso stato d’animo di quando si era più giovani e si andava a lezione dal proprio Maestro! Non si vedeva l’ora che arrivasse il giorno per l’allenamento. Perciò, se con gli anni sono riuscito a conservare questo stato d’animo e quindi ho il medesimo entusiasmo, posso dire che ho la stessa passione di allora.