Quanta fatica avrà impiegato, quel ragazzetto speciale, per arrivare a fare ciò che oggi ci ha dimostrato?
Premetto: non sono un arbitro.
Cerco solo d’insegnare il karate.
Una ‘garetta’ sociale, una delle tante organizzate con il solo scopo di far giocare a Karate ragazzetti dai sei anni in su.
Arrivo sul quadrato del tatami 3 al quale sono stato designato come arbitro di sedia e, fischietto al collo, mi avvicino ai miei compagni di pool. Tutti in fila, mani dietro la schiena, faccio il pieno di boria, pronto a dar giudizio.
Di fronte a me, a noi, in fila ed emozionati, i ragazzini sono pronti a giocare, a dimostrare.
Sbrigati i convenevoli, noi arbitri ci dirigiamo come soldatini alla nostra sedia, pronti ad afferrare le nostre bandierine fino a brandirle, come spadaccini d’altri tempi.
Rossa nella sinistra e bianca nella destra.
Si parte.
La formula è quella a eliminazione e già il termine lo detesto.
Due ragazzetti vengono chiamati in pedana pronti a dimostrare il loro kata.
Ecco, è qua che i miei occhi lo vedono, avvinghiato dalla sua cintura: andatura incerta, postura goffa, lo sguardo lascia trasparire che lui è speciale. Ha qualcosa in più, o forse in meno, ma ha qualcosa di diverso, fuori e anche dentro.
Salutano, dichiarano il loro kata, un sospiro e con un pieno di energia partono con la massima forza.
La sua performance è veloce e anche quella dell’avversario. Scattante, energica, attenta, ma anche quella dell’avversario… Non posso mentire, la mia attenzione è rapita da lui.
I miei dubbi si dipanano e, mentre cerco di osservare la cintura rossa, mi godo il ragazzetto speciale in tutta la sua goffaggine.
Sguardo timido ma fermo, andatura incerta ma forte, spalla contratta, troppo contratta, ma tanta, tanta voglia di dimostrare il suo karate.
Il tempo è pressoché simile, ma lui ha bisogno di più impegno.
La transizione abbastanza attenta, ma lui è dinoccolato. Il kime non manca a entrambi, ma il rosso è un ragazzetto, il bianco ha qualcosa di speciale.
Yame!…
I due tornano in shizentai pronti per il verdetto e nelle mie orecchie vive ancora l’eco dell’hantei.
Avrei voluto che quel momento non arrivasse mai.
Mi si ferma il tempo, il pensiero prende il sopravvento, la ragione urla e la consapevolezza ascolta, inerme.
Quante ore, giorni, settimane, mesi avrà speso il ragazzetto speciale sudando nella sua palestra per dimostrarmi, in un solo minuto, tutto il suo karate?
Quanta fatica avrà impiegato, quel ragazzetto speciale, per arrivare a fare ciò che oggi ci ha dimostrato?
Ma la domanda alla quale non trovo mai risposta è: chi può giudicare il sacrificio dietro a una pratica come quella del Karate?
Pochi attimi e il dovere mi fa eco nella mente.
Le mani stringono le bandiere e, come un automa, ricordando che deve vincere il migliore, contraggo i muscoli del braccio sinistro.
Non hanno mai pesato così tanto quel braccio, quella mano, quella bandiera rossa.
La alzo, ma non senza fatica, quella maledetta bandiera rossa.
Guardo i suoi occhi.
Guardo i suoi occhi contare le cinque bandiere rosse.
Non so lui cos’abbia provato. Io, vergogna.
Non sono un arbitro.
Abbasso le gare.
Evviva il Karate.