Quando l’allievo dice al maestro di karate: “Non voglio più praticare!”…
Per alcuni è una decisione che arriva dopo ripetute battute d’arresto; per altri si tratta di noia e nausea da allenamento; a volte, è un’improvvisa “liberazione”. Parliamo del drop out, espressione inglese che indica l’atto di appendere karategi e cintura al chiodo o meglio, in generale, di abbandonare lo sport. Con una sfumatura riferita a chi non ha sviluppato a pieno il proprio potenziale o neanche iniziato un percorso agonistico. Infatti, si applica ai giovani tra i 14 e i 20 anni d’età, con numeri vistosi nel nostro Paese. Gli USA si fermano al 35%, la Francia tocca il 17%, mentre in Italia, stando a una indagine ISTAT del 2010, il 60% degli adolescenti non pratica discipline sportive e ben il 43% ha abbandonato lo sport.
Drop out – espressione inglese che indica l’atto di appendere karategi e cintura al chiodo o meglio, in generale, di abbandonare lo sport.
Questo, nonostante gli indubbi benefici della pratica sportiva in termini di apprendimento di nuove competenze: teoriche, tecniche, relazionali. Oltre a quelli di prevenzione delle malattie e miglioramento della forma psico-fisica, a tutto vantaggio di una completa realizzazione personale.
A detta di molti esperti il motivo principale del drop out è la difficoltà di accettare il confronto con l’avversario, soprattutto per l’enfasi con cui spesso i coach giudicano le performance, sottovalutando i progressi dei singoli atleti. Questa mentalità esasperatamente competitiva mina l’autostima degli allievi, senza svilupparne la resistenza. Anzi, genera un crollo nella motivazione intrinseca, che si traduce in una sensazione di fallimento tale da investire anche altri ambiti.
Il mondo dello sport non ha più la pazienza di aspettare i ritmi di maturazione personali. La selezione è precoce, un “tritacarne” che è regola e voluto esito finale. Conta davvero solo il risultato e non il gusto di una sfida coinvolgente, a se stessi e ai propri limiti.
Da altre ricerche del 2013 emergono diversi fattori che determinano l’abbandono dello sport:
- il problema di conciliare lo studio con gli allenamenti (per il 56%);
- i disaccordi che sorgono con l’allenatore (19,4%);
- la mancanza di divertimento durante il training, sempre più meccanico e ripetitivo (65%);
- troppa fatica e/o dolore (24,4%);
- relazioni non sane né empatiche;
- la logistica o l’inadeguatezza degli impianti;
- i costi da sostenere;
- i frequenti infortuni;
- le scarse possibilità di successo perché gli obiettivi, più o meno condivisi, non sono alla portata degli allievi;
- Non ultimi, i pareri e l’influenza di genitori e amici.
Il mondo dello sport non ha più la pazienza di aspettare i ritmi di maturazione personali. La selezione è precoce.
La famiglia può gestire malamente le vittorie e le sconfitte, le critiche e le frustrazioni, inviando al figlio messaggi imperativi (…”devi battere tutti e specialmente qualcuno”) o negativi, che possono riflettersi sul resto dell’esistenza.
A proposito di etica sportiva, il comportamento dell’adulto può essere l’esatto contrario delle sue parole: predica la correttezza assoluta, ma a fronte di un aiuto chimico o d’altra natura, può pure chiudere un occhio.
Classico poi il caso del genitore che è stato un atleta e non è riuscito ad affermarsi come sperava, così proietta le sue speranze di rivincita sul figlio, “vivendo” attraverso di lui.
Quanto agli amici, gli studi concordano sul fatto che il massimo di attività sportiva si raggiunge tra gli 11 e i 14 anni, quando il gruppo di coetanei di solito è più coeso. Ciò determina maggior impegno ed entusiasmo da parte dei ragazzi.
Dissentiamo da chi vede prevalere, negli anni successivi, la mancanza di spirito di sacrificio e la preferenza per i videogiochi, il cinema, la discoteca. Può essere vero per alcuni, ma anche i pari età nella UE – 3 volte più attivi – hanno a disposizione i loro bravi svaghi. Quindi, questo sembra un comodo alibi per tutti coloro che non sono in grado di proporre valori e bellezza autentica dello sport. Compreso chi organizza i programmi scolastici; per esempio, gli studenti italiani hanno la metà delle ore di motoria dei francesi.
Passando al karate, in Italia l’attenzione al fenomeno è evidente: dal progetto ‘Karate Bambino’, realizzato in alcune palestre della Lombardia, che gratifica i piccoli karateka agganciando lo sport a giochi popolari e fiabe, e fidelizzando gli atleti sino ai 14 anni anche con pubblicazioni ad hoc; ai convegni sul tema – l’ultimo a Monselice (PD) nel febbraio 2015; alla costruzione di eventi formativi per i tecnici e di reti locali di associazioni sportive che hanno visto federazioni affiancate a enti di promozione sportiva, come la Libertas.
Però non esistono dati specifici, per i quali dobbiamo così fare riferimento alla Francia o al mondo anglosassone.
Se valichiamo le Alpi, su 20 principianti iscritti in palestra, solo uno raggiunge il primo Dan. I rapporti FFK indicano la responsabilità degli insegnanti, tesi a favorire chi dimostra subito qualità, e di regole d’esame oltremodo esigenti, soprattutto nel kata.
il massimo di attività sportiva si raggiunge tra gli 11 e i 14 anni, quando il gruppo di coetanei di solito è più coeso.
Se invece oltrepassiamo l’Atlantico, verifichiamo che nel 2012 il picco dei drop out coincideva con la cintura nera, percepita come la meta del viaggio. Negli USA metà delle cinture bianche abbandona, per via di aspettative irrealistiche (…diventare Bruce Lee in poche lezioni). Il punto di svolta è la cintura verde; chi la ottiene e prosegue, probabilmente continuerà a praticare il karate per molti anni ancora.
Per le ragazze le ragioni sono diverse, dato che concepiscono il karate più che altro come mezzo di autodifesa. Quando ritengono di aver raggiunto un livello sufficiente, decidono di smettere. Oppure lo fanno perché si sentono inadeguate. Altra particolarità, è che negli USA il karate coinvolge spesso intere famiglie e quando un componente interrompe la pratica, di solito gli altri lo seguono.
In Inghilterra e negli Stati Uniti si sta sperimentando in alcuni dojo un ‘contratto sociale’, elaborato insieme agli studenti e alle loro famiglie. Pare che questo tipo di vincolo funzioni. Sicuramente non è l’unica soluzione, però si sta rivelando un buon argine al drop out. Aiuta perfino a non viverlo come una sconfitta assoluta, ma piuttosto come una tappa di crescita.