La sveglia suona alle cinque di un mattino di gennaio.
La sveglia suona alle cinque di un mattino di gennaio.
Un mattino qualsiasi, un buio qualsiasi e un freddo qualsiasi.
Faccia, denti, tuta e via.
Alle cinque e dieci sono già per strada.
Breve corsa, settecento – novecento metri e sono arrivato lì, in quella distesa d’erba che, ignara, sarebbe diventata il mio Dojo.
Inizialmente lentissimo, molto profondo, come piace a me, cosicché possa ascoltarne il dettaglio più intimo.
Kihon di primo dan.
Inizialmente lentissimo, molto profondo, come piace a me, cosicché possa ascoltarne il dettaglio più intimo. Poi fortissimo. Shun soku ittai, come tagliare un chicco di riso in cento parti in un secondo.
Al massimo delle mie possibilità.
Respiro, sudo, rifletto.
Kata.
Kata heian, fino al quinto.
Non veloce, anzi, molto lento, cercando di chiedere al corpo e alla mia mente la miglior sinergia di sempre.
Attorno a me buio, silenzio, gelo.
Respiro, sudo, rifletto.
Cento gyaku zuki destri, cento sinistri, tutti al makiwara, o per meglio dire al mio amico Albero che, sorpreso, spia da poco prima la mia pratica.
Le nocche doloranti, il freddo sulla faccia, il sudore che lascia spazio alla nuova esperienza, il silenzio, il buio, la solitudine del momento.
Anzi no, non sono solo.
Il mio amico Albero…
Lo saluto con un occhiolino. Mi risponde con la sua maestosità.