Non mi spaventa un’Olimpiade. Amo il karate per la scossa di adrenalina quando ascolto il M° Shirai, ma anche quando partecipo a una competizione.
Il Karate è un mondo segreto. E non perché ci siano delle verità oscure da proteggere, ma perché è composto da innumerevoli strati, perché è denso di significati e motivi.
Questo è vero per molte arti marziali.
Si inizia la pratica seguendo un istinto, un desiderio, una curiosità. Si arriva sul dojo per la prima volta senza conoscere granché. Forse i più motivati avranno fatto una ricerca su Google, ma in generale l’arte marziale resta un mistero finché non la vivi.
Le aspettative possono essere deluse. In tanti mollano dopo qualche mese – o dopo tre lezioni –, ma qualcuno sceglie di restare, perché vede nell’arte marziale quegli strati misteriosi che compongono un mondo intero. Sceglie di restare e di scoprire.
In tanti mollano dopo qualche mese – o dopo tre lezioni –, ma qualcuno sceglie di restare, perché vede nell’arte marziale quegli strati misteriosi che compongono un mondo intero.
Non sono spaventata dalla recentissima decisione dello IOC – International Olympic Committee – di includere il karate nelle discipline olimpiche dei Giochi di Tokyo 2020. Perché dovrei? Il timore di molti è che il karate sarà trasformato in uno sport olimpico povero di tecnica e avido di spettacolo, che si perderanno i significati profondi, tradizionali, della disciplina.
Io credo che il karate sia più forte di questo. Credo che il mondo segreto di quest’arte sia contenuto nei dojo di tutto il mondo, dove si tramandano i fondamenti della tecnica e della spiritualità. Credo che le persone continueranno a frequentare i nostri dojo formandosi aspettative che potranno essere disattese, oppure realizzate. E questo non avrà a che fare con un’Olimpiade.
L’agonismo, se praticato nei giusti termini e con i giusti fini, non ha ragione di essere demonizzato.
Sono emozionata e felice per l’inclusione del Karate ai Giochi di Tokyo; non vedo l’ora di godermi lo spettacolo davanti alla tv, di rispondere alle domande di chi, incuriosito, mi chiederà cosa ne penso di quel kata, di quel kumite.
Non sono un’agonista, anche se ho fatto qualche gara, ricevendo – in quei momenti – insegnamenti che altrimenti non avrei potuto ricevere. La competizione ha un significato ed è utile. Tutti i praticanti di arti marziali dovrebbero quanto meno provare, anche se non diventeranno Mirko Saffiotti (FIKTA) o Luca Valdesi (FIJLKAM), esponenti di prim’ordine di due federazioni piuttosto diverse.
L’agonismo, se praticato nei giusti termini e con i giusti fini, non ha ragione di essere demonizzato. Io so che, nel profondo, non sarò mai spinta dal vincere o dal perdere.
Amo il karate per ragioni diverse, amo il karate per l’incredibile scossa di adrenalina che ricevo quando ascolto il Maestro Shirai in mezzo a centinaia di altri atleti riuniti per uno stage nazionale, quando vedo i suoi allievi diretti dimostrare come si fa un kata, come si fa un bunkai, come si tira un ‘benedetto’ calcio. Amo il karate anche quando partecipo a una competizione, perché in quel momento salire sul tatami è una prima forma di coraggio, a prescindere dal risultato.
Credo che il mondo segreto di quest’arte sia contenuto nei dojo di tutto il mondo, dove si tramandano i fondamenti della tecnica e della spiritualità.
Per tanto tempo non avevo capito. I segreti del karate erano rimasti tali, ma poi è sopraggiunta una chiarezza, che probabilmente non sarà mai completa, che mi ha mostrato il karate per quello che è: una via (Do), un modo di vivere.
Questo è forse l’unico insegnamento che conta. Nemmeno la tecnica è importante se prima non hai visualizzato l’immagine di ciò che deve essere, se non hai compreso dove sei e dove vuoi andare. Il Maestro lo dice sempre.
Allora no, non mi spaventa un’Olimpiade. Non ho paura che il karate si svuoti di significato. Credo invece che le opportunità di tramandare i segreti della tradizione aumenteranno. Qualcuno capirà. Qualcuno no.
È la storia del mondo.