Il KarateDo è come un pezzo di sashimi: ciò che fa la differenza sono gusto, passione, tradizione, impegno, cuore e… l’invisibile.
Proviamo a immaginare il tango senza storia dell’Argentina… Oppure, l’haka senza i maori della Nuova Zelanda o la pratica dello yoga senza conoscere la storia dell’India.
Probabilmente rimarrebbero bellissime danze, gesti, pratiche, ma il contenuto?
Come si può pensare di capirne il significato più profondo, il vero messaggio del quale il gesto è portatore, limitandosi al visibile?
Anche più semplicemente, come capire qual è lo scopo per il quale quella determinata pratica è nata?
Quanto, noi vettori di cultura nipponica (perché tali dovremmo considerarci), siamo chiamati alla responsabilità di consegnare la pratica ai posteri…?
Partiamo da qui: il mondo all’epoca di internet viaggia a una velocità tale da averne quasi perso il controllo ed ė senza dubbio una delle cause dell’inevitabile perdita di contenuti. – Anche in fisica il peso del corpo che si muove in uno spazio è determinante ai fini della velocità, quindi, laddove l’obiettivo è l’immediatezza, il contenuto diventa zavorra –.
Ma, arrivando a noi, quanta responsabilità comporta, in quest’epoca ad “alta velocità”, essere portatore di una tradizione carica di storia e cultura?
Tutta questa velocità, non solo lascia poco spazio a zavorre apparentemente inutili, ma diventa complice di una serie di contaminazioni che inevitabilmente cambiano il senso del messaggio dalla partenza sino al suo arrivo.
Quanto, noi vettori di cultura nipponica (perché tali dovremmo considerarci), siamo chiamati alla responsabilità di consegnare la pratica ai posteri, con il fedele carico dei suoi contenuti?
Vettore o essenza. Esteriore o interiore. Performance o consapevolezza.
La questione si aggira attorno alla possibilità di trasmettere l’invisibile attraverso il visibile e non viceversa.
È nell’invisibile che si nasconde l’essenza, laddove si celano valori, emozioni e sapori; tutti lì, ben nascosti.
Più volte mi è capitato di riflettere sulla modernizzazione di concetti e la conseguente deformazione causata da un errato utilizzo della traduzione, piuttosto che da un’opportunistica manipolazione e… non c’è nulla da fare, non ne trovo ragioni.
La questione si aggira attorno alla possibilità di trasmettere l’invisibile attraverso il visibile e non viceversa.
Con il Karatedo no, tutto questo non si può, ma soprattutto non si deve.
Cosa ci resta se prendiamo una pratica qual è quella del Karate e non ci accompagniamo tutto quel magnifico carico di storia, arte e cultura nipponica sulla quale si basa?
Cosa ci resta se limitiamo la nostra ricerca o, peggio ancora, la trasmissione, al solo gesto atletico, senza almeno provare a cercarne la storia e quindi il significato?
Cosa ci resta se svuotiamo dei suoi contenuti un patrimonio qual è il Karatedo?
Succede che consegniamo un bel cofanetto dalla manifattura pregiata (forse), ma vuoto.
Succede che osserviamo un’opera esposta ammirandone solo l’elaborata cornice.
Succede che apprezziamo un pezzo di sashimi valutandone solo l’intenso colore.
Ecco, il Karatedo è come un pezzo di sashimi: ciò che fa la differenza è il gusto, la passione, la tradizione, l’impegno, il cuore, l’invisibile.
Se il Karate non sa di Giappone non è Karate.
Abbiamo una responsabilità. (Io per primo).