Una lezione con il Maestro di Kendo Takuya Murata.
(In KarateDo n. 40 ott-nov-dic 2015)
Di Christina Hoerter (Karate Club Bassano)
Sabato 11 dicembre 2015, presso il Dojō del Karate Club Bassano a Romano d’Ezzelino, si è tenuto il primo di una serie di incontri con il Maestro Murata. L’iniziativa, sostenuta dal comitato veneto della FIKTA, ha avuto una buona risposta, contando su una nutrita partecipazione da ogni angolo della regione.
L’incontro ha segnato l’inizio di un cammino rivelatorio verso quel tesoro di vissuto, in termini di cultura, storia e filosofia, che sottende alla pratica delle arti marziali, facenti parte della tradizione del Budo.
In questo cammino, abbiamo il privilegio di essere guidati dal M° Murata che, vivendo qui, ha fatto dell’italiano la sua seconda lingua e ciò ci ha consentito di tradurre magistralmente, non solo in termini linguistici, la sua profonda conoscenza della cultura del Budo e, quindi, di condividerla con noi.
Ricorre da sempre e in ogni dojō l’invito a coltivare la consapevolezza di ogni gesto, grande o piccolo che sia.
Come molte cose della vita anche il karate, nella nostra società e nel nostro tempo, si può vivere in tanti modi. Tuttavia, a prescindere da quanto sopra, ricorre da sempre e in ogni dojō l’invito a coltivare la consapevolezza di ogni gesto, grande o piccolo che sia. Talvolta però, la consapevolezza dei gesti presume una conoscenza che non è scontata e nemmeno è sempre facilmente disponibile. Una conoscenza che parte anche dalle cose semplici come per esempio: con che piede si varca la soglia di un dojō o si dispongono le ciabattine.
Ecco che così sabato aspettiamo tutti l’arrivo del Maestro che entrando ci saluta con un sorriso e, dopo aver dedicato un lungo sguardo alle nostre ciabatte nei pressi dell’ingresso, inizia a parlarci di una nave…
In Giappone, terra da sempre soggetta ai tifoni, che arrivano veloci quanto violenti, la nave entra nel porto iribuné ovvero di prua, nella direzione di entrata, ma poi viene ormeggiata debuné, in direzione di uscita, con la prua rivolta verso il mare, pronta a salpare il più velocemente possibile senza perdere attimi preziosi in manovre. Poi, il Maestro ci conduce all’immagine dell’ingresso di una casa, dove le scarpe sono poste con le punte volte verso l’uscita, la direzione che si prende in caso di fuga per raggiungere un posto sicuro durante i tanti terremoti.
Due semplici esempi, sufficienti a far riflettere e a spiegarci che ogni insegnamento, anche nel karate, ha un senso, un significato, e ogni aspetto ha una sua ragion d’essere che si ricollega al passato vissuto.
Iniziamo con il saluto Rei, rei inteso come espressione del rispetto per gli altri e per tutto ciò che facciamo.
- Questo rei ha una forma: le braccia lungo i fianchi, il mento retratto, il busto che si flette, senza curvarsi, facendo perno sul bacino di 15 o 30 gradi. Il busto si flette a una certa velocità, quindi si arresta per un tempo variabile, uguale alla misura del rispetto portato, poi risale, ma più lentamente.
- Si scende in seiza, muovendo prima la gamba sinistra e quindi la destra, senza modificare la distanza rispetto alla posizione di partenza (se si pensasse al saluto tra due samurai è impensabile concepire che potessero cambiare la distanza tra loro, oltre alla necessità di restare pronti alla difesa o all’attacco fino all’ultimo istante prima del saluto e a quello immediatamente successivo).
- Ci si siede sull’osso sacro mantenendo la schiena diritta, appoggiati sui piedi, con l’alluce del destro sopra il sinistro, le gambe non divaricate, ma in linea con la larghezza del bacino. Il mento sempre leggermente retratto, il Seika-Tanden attivo.
Ci sono 3 luoghi dell’anima:
- Joden, lobo frontale dove giace l’anima della ragione.
- Chuden sede anatomica del cuore, dove giace l’anima dei sentimenti e delle emozioni.
- Seika-Tanden che si trova circa dieci centimetri sotto l’ombelico (seika significa sotto l’ombelico), ma dentro la regione addominale, ovvero non sulla superficie, ed è la sede del coraggio e della determinazione.
Tutti e tre sono importanti, ma per la pratica del Budō il più importante è certamente Seika-Tanden, quello che purtroppo attiviamo e usiamo meno, privilegiando la ragione e le emozioni.
Durante il Mokusō, si inizia a curare la respirazione e quindi anche il necessario apporto di ossigeno.
Con il saluto, durante il Mokusō, si inizia a curare la respirazione e quindi anche il necessario apporto di ossigeno. Il modo più facile per attuarlo è come segue: 1-2-3 tempi e si inspira, 4-5 e si deposita l’aria inspirata in basso verso il Seika-Tanden e infine, 6-7-8-9-10 e si espira lentamente con la bocca socchiusa e con un andamento omogeneo e costante.
Questi tempi seguono una cadenza che è soggettiva e che nella pratica Zen si chiama Susokukan. Durante mokuso si “vede senza guardare” 3-4 metri davanti a sé.
Durante il saluto a Shomen le mani scendono assieme; mentre durante il saluto a un individuo scende prima la mano sinistra e poi la destra e viceversa quando ci si rimette seduti. Questo perché il Samurai doveva essere pronto anche nel momento del saluto, che lo esponeva a un maggiore vulnerabilità.
Quando ci si alza il Seika-Tanden attivo permette di non perdere la postura, di controllare la velocità del movimento. Appena ci si stacca dai piedi, questi vanno con le dita in presa sul pavimento. Altrimenti, il samurai come avrebbe potuto pensare di essere pronto a proiettarsi in avanti o in piedi in caso di attacco? Inoltre, perché si deve fare attenzione nel muovere le gambe passando per la linea centrale? Perché in questo modo si proteggono parti vitali del corpo.
Anche nel saluto si riconferma il fatto che ogni gesto ha una sua precisa ragion d’essere che si collega al passato e alla vita del Bushidō.
Ciò che dà vita a questa forma è la consapevolezza della ragione di ogni gesto e il cuore che vi si pone. Senza cuore non c’è rei… e forse nulla.
Quando il Maestro ha parlato del Budō, innanzitutto ha precisato la distinzione tra bujutsu e budō, dove il primo significa e privilegia la tecnica di combattimento, mentre il secondo il vivere, il do. Bu, invece, che è l’ideogramma comune a entrambe queste famiglie, viene tradotto come “marziale”.
Io vorrei raccontarvi questo incontro, ma inevitabilmente non potrei che riferire come già ho fatto, in modo imperfetto e soggettivo, ciò che il Maestro ci ha detto. Ma l’insegnamento è trasmissione da Maestro ad allievo, giacché senza condivisione non è possibile capire.
È difficile restituire la commozione e la tensione che ho provato mentre il Maestro cercava di ripercorrere per noi secoli di storia contrassegnata da scontri apocalittici in cui ogni singolo di 80.000 o più uomini combatteva, esaurendo, mentre lo scontro diventava un corpo a corpo, tutte le armi del suo equipaggiamento, dall’arco fino alla katana, la cui micidiale lama presto non sarebbe più riuscita a fendere le membra del nemico, essendosi il filo consumato per le troppe carni squarciate…
Uomini che combattevano come se ogni attimo, potesse essere l’unico e ultimo a disposizione.
Uomini la cui ricompensa era basata sulla prova tangibile del valore del nemico ucciso, rappresentata dal suo capo mozzato. E mentre lo sguardo è ancora trattenuto da questa visione apocalittica dell’annientamento completo della forza umana, che rappresenta la macchina vivente dell’esercito, ecco che da questa nasce, per genesi spontanea, un uomo dalla dimensione diversa.
Un uomo i cui diari testimoniano il contatto che ha vissuto con l’avversario, un incontro tra due vite vissute in estremo fino la morte. In questo incontro, in cui i due avversari si affrontano sulle due sponde opposte dello stesso fiume della vita che scorre, in questo scontro in cui uno sparirà, ma allo stesso tempo vivrà nella vita dell’altro (perché nel momento estremo vige assoluto e fermo il rispetto verso l’altro, verso la sua vita, verso la realtà e le cose importanti della vita di lui), proprio in quell’istante, nasce il cuore del Budō.
Questo è anche il cuore del rei ed è ciò che dovremmo sentire entrando nel dojō e al saluto.
…è qui che lo Zen interviene, insegnando che la mente non venga legata dalla necessità del dover sempre capire per essere consapevoli.
Da questa stessa visione nasce, nello stesso periodo storico, quella forma di malinconica tristezza (Aware) che si rispecchia nella bellezza suprema della fioritura dei ciliegi, i cui petali, al culmine della loro bellezza, lasciano tutti insieme il calice, spinti dal primo soffio del vento.
La vita stessa dei Sakura rispecchia in modo incredibile la vita del Bushi che, in giovanissima età e all’apice delle proprie possibili capacità, come il fiore del ciliegio è già pronto a morire. Eppure, il centro in tutto ciò non è la morte, bensì il “come” si è vissuto. La cultura del vivere e del vissuto, con la propria esistenza e la propria sofferenza. Questa si rinnova nel Keiko, ovvero la pratica del karate (e in generale delle arti marziali). Pratica che, a differenza della pratica fisica, contiene anche l’anima e rivivendo il passato continua a essere tramandata da maestro ad allievo da più di 500 anni.
Una dimensione che si vive e non necessariamente può o deve essere sempre compresa e razionalizzata, ed è qui che lo Zen interviene, insegnando che la mente non venga legata dalla necessità del dover sempre capire per essere consapevoli. Il Budō ci guida verso un cuore trasparente e verso quello di cui esso è capace, andando oltre se stesso, ovvero andando contro natura nel senso dell’istinto della sopravvivenza, consentendo pertanto di affrontare il pericolo con serenità.