Il M°Shirai ci disse: “Il leone combatte meglio quando ha fame”. Un viaggio alle origini della diffusione del karate in Italia.
(In Karate Do n. 34 apr-mag-giu 2014)
Luigi Zoia è nato a Milano nel 1948. Cintura nera 6° dan, è stato per tre volte vicecampione del mondo (1971-1973-1975), tre volte campione europeo e tre volte campione italiano. Laureatosi in Economia all’Università Bocconi di Milano, è diventato dirigente di banca prima a Milano e poi a New York, dov’è stato imprenditore nel settore immobiliare, a cui ha fatto seguito l’apertura in Europa di una società finanziaria di gestioni patrimoniali. Recentemente Luigi ha fondato l’associazione culturale ‘The Consciouss Business Group’ di cui è Presidente e ha scritto il suo primo libro intitolato Cadere sette volte… rialzarsi otto, un’avvincente autobiografia in cui il nostro protagonista racconta l’evoluzione della propria storia personale, dal fallimento al successo, spiegando nei dettagli come il suo sogno d’imprenditore si è potuto realizzare applicando al mondo del lavoro i valori, il metodo e i preziosi insegnamenti appresi durante tanti anni di pratica del karate con il M° Shirai. Intervistare un karateka che è stato anche un atleta diretto del M° Shirai nel periodo della fine degli anni ‘60, è sempre una grande emozione: è un viaggio alle origini della diffusione del karate in Italia che ci permette di scoprire con occhi nuovi il karate che pratichiamo oggi e l’evoluzione di quest’arte rispetto al passato. Grazie Luigi per questa intervista!
Luigi, com’è avvenuto il tuo primo incontro con il karate?
La vita mi fece incontrare il karate un giorno di ottobre del 1965 al Palalido di Piazzale Lotto a Milano: era in programma una dimostrazione preparata da una pattuglia di maestri giapponesi venuti sino in Italia per mostrare cosa fosse quest’arte marziale allora sconosciuta a tutti noi. Quando entrai al Palalido ero un ragazzino dinoccolato di diciassette anni, che dimostrava qualche anno di meno e pesava meno di settanta chilogrammi. Ero talmente timido che non sarei mai entrato in un bar affollato per la paura di affrontare tutta quella folla da solo. Quando uscii dal Palalido, poche ore dopo, ero sempre quel ragazzino allampanato di diciassette anni, ma dentro ero cambiato per sempre. C’erano riusciti in pochissimo tempo quei quindici maestri giapponesi di karate, fasciati con una veste simile a quella dei judoka e dotati di una padronanza fisica e un’energia mentale straordinarie.
L’allenamento non era niente di “metafisico”, nessuna lezione di filosofia orientale: si sudava, si faticava come bestie e ci si picchiava tanto.
Quando e con quale Maestro hai iniziato la pratica del karate?
Iniziai la pratica del karate nell’ottobre del 1965. Il M° Shirai all’epoca stava per compiere trent’anni ed era nel suo momento di forma migliore: una vera bomba di energia sempre pronta a esplodere. Quel giorno al Palalido era esploso in maniera spettacolare. Vederlo era stato ipnotico, un’esperienza straordinaria. Fu lui che rimase in Italia e fu alla sua scuola di karate, al suo dojo, che mi iscrissi. Nel 1966, dopo un anno di pratica, diventai cintura nera. Sotto la guida del Maestro avevo iniziato a trasformarmi. In quel momento non me ne rendevo conto, ma si stava finendo di formare uno degli aspetti più caratteristici del mio carattere: la determinazione.
Come si svolgevano gli allenamenti con il Maestro Shirai?
La tecnica di insegnamento del Maestro era fortemente legata al bisogno del momento: era l’approccio della sopravvivenza. Era stato deciso che, entro due anni al massimo, la scuola italiana avrebbe dovuto partecipare con i suoi migliori allievi a stage e combattimenti europei. Questo voleva dire formare in poco più di un anno e mezzo le prime cinture nere. C’era una gran fretta di fare. Il M° Shirai prese tutti i suoi allievi del primo corso, tra i quali c’ero anche io, e ci sbatté neanche troppo figurativamente contro un muro, per anni. E il muro era lui. Tutti quelli che rimasero in qualche modo ‘interi’, ancora funzionali, vennero sottoposti ad allenamenti molto duri e andarono avanti. Gli altri furono scartati o si ritirarono da soli. Era la tecnica per creare i veri campioni: chi sopravviveva, continuava.
Ricordo ancora i primi mesi al dojo: la sera prima degli allenamenti io avevo sempre molta paura, non riuscivo a dormire. Il giorno dopo aspettavo sempre fino all’ultimo momento per mettere la veste nel borsone e andare fino alla palestra. Molte volte sono stato indeciso fino all’ultimo momento se andare. Ma non mancai mai. L’allenamento non era niente di “metafisico”, nessuna lezione di filosofia orientale: si sudava, si faticava come bestie e ci si picchiava tanto. Si eseguivano le tecniche di base di calcio e di pugno centinaia, migliaia, di volte, facendo ripetizioni infinite sino a che i muscoli non cominciavano a urlare di dolore per l’acido lattico e sembrava che andare ancora avanti sarebbe stato impossibile. A quel punto, diceva il Maestro, cominciava l’allenamento serio, quello che avrebbe inciso sui nostri limiti mentali. La necessità del M° Shirai di formare la prima leva di cinture nere nel modo più veloce possibile, ebbe l’effetto di creare una vera e propria selezione naturale. Noi che eravamo rimasti eravamo stati forgiati come spade d’acciaio, sia fisicamente sia mentalmente, come ha scritto il mio amico e collega di karate Ennio Falsoni. Eravamo sopravvissuti perché più determinati degli altri e cominciammo a costruire faticosamente su questa dote tutto quello che ci mancava. Che praticamente era il 99% di quanto richiesto dal Maestro…
Mi studiai i filmati dei combattimenti di De Michelis e notai un piccolissimo difetto tecnico…
Sei stato un agonista che negli anni 70 ha ottenuto numerosi successi in campo nazionale e internazionale: quale ricordo agonistico conservi dentro di te con maggiore emozione?
Di quei primi anni, a cavallo tra il 1968 e il 1969, ricordo il veneziano Bruno De Michelis: era in nazionale, pesava centoventi chili ed era alto un metro e novanta. Aveva una forza fisica mostruosa, piedi di taglia quarantotto, un gigante. In Giappone era finito addirittura in televisione. La sua imponenza fisica e il suo coraggio, la sua impetuosità e il suo carisma, lo rendevano l’uomo da battere. Io nel frattempo ero cresciuto, non ero più il timido ragazzino mingherlino che aveva iniziato la pratica quattro anni prima: avevo imparato a combattere, ero deciso e più forte sia fisicamente sia mentalmente.
Incontrai De Michelis alla finale del Campionato Italiano nel 1970. L’anfiteatro del Palalido di Milano, con i suoi cinquemila posti, accoglieva una folla di spettatori che a me sembrava immensa. Ricordo l’amico Ennio Falsoni che aveva perso il suo turno nel mio girone. Mi venne vicino e mi disse: «De Michelis è molto forte, non va giù facilmente. L’unico modo per batterlo è farlo stancare, perché avendo tanta massa, consuma molto ossigeno. Attacca Luigi! Attacca continuamente sino a stremarlo!». Durante il combattimento decisi così di attaccare e di non arretrare di un centimetro di fronte agli attacchi del mio avversario. Dopo i primi gedan barai mi sembrava di bloccare non un calcio, ma un ariete. Iniziai a non sentire più il braccio e pensai che fosse meglio così, perché in quel modo non avrei sentito il dolore. Ebbi un attimo d’esitazione e mi ritrovai a “parare” un destro con la mascella sinistra che mi scaraventò a terra. Mi rialzai. Continuammo il combattimento finché il M° Kase, che arbitrava l’incontro, fermò il combattimento e decretò il primo posto a pari merito.
In vista del Campionato Italiano dell’anno dopo, nel 1971, forte dell’esperienza dell’anno prima, mi studiai i filmati dei combattimenti di De Michelis e notai un piccolissimo difetto tecnico: nel partire all’attacco con il corpo, invece di lanciare contemporaneamente il pugno, De Michelis lo caricava aprendo un varco impercettibile nella sua difesa destra per una frazione di secondo. In quel momento capii che era mio, e infatti fu così. In occasione del Campionato rincontrai De Michelis in finale. Questa volta avevo le idee chiare, ero completamente concentrato sul mio avversario con il pubblico che spariva dalla vista: eravamo soli, io e lui. Quando lo sentii partire, partii anche io contemporaneamente: avevo un decimo di secondo su di lui, entrai nella sua guardia in pieno con un kisami tsuki sinistro al volto. Primo wasari! Un minuto dopo si ripete la scena: secondo attacco, seconda apertura quasi impercettibile, secondo wasari. Fine del Campionato Italiano.
Hai un aneddoto sul karate da raccontare ai nostri lettori?
Ricordo un episodio in particolare, che risale a diversi anni fa, durante il mio primo Campionato Mondiale in Giappone. Quando arrivammo per la prima volta all’enorme stazione di Shinjuku, per cambiare metropolitana e recarci al primo giorno di allenamenti in vista delle gare, incontrammo la squadra tedesca che stava andando al mare per una mattinata di relax e arrivare in condizione perfetta alla tre-giorni di combattimenti del mondiale. L’idea del M° Shirai invece era completamente diversa: ci sottopose a uno degli allenamenti più tosti della nostra vita, senza risparmiare nessuno. Praticamente ci spezzò in due, nonostante fossimo comunque temprati da anni di pratica continua del karate e già forti di titoli nazionali ed europei vinti negli anni precedenti. Quando arrivammo alla gara eravamo stati talmente assorbiti dagli allenamenti che non avevamo più nessuna emozione: il distacco era completo. La gara era semplicemente una verifica. Da notare che fin dalla sera prima, quando ci allenammo fino a un’ora tardissima, non mangiavamo né lo facemmo durante la mattinata di incontri. Saltammo anche il pranzo. Neanche nel pomeriggio si vide alcuna traccia di cibo. Uno dei miei compagni chiese al Maestro quando avremmo potuto mangiare qualcosa. Lui rispose con una delle sue battute più taglienti e che ancora ricordo, perché si tatuò nella mia carne assieme alla fatica e alla concentrazione di quel momento: «Il leone combatte meglio quando ha fame», disse. Non sorrise, non era uno scherzo, facemmo tutto il campionato del mondo, compresa la finale, digiuni. Arrivammo secondi. Ringraziammo con un profondo inchino i nostri avversari che ci avevano sconfitto (era la squadra giapponese), così come avevamo ringraziato tutti gli avversari che avevamo battuto nei precedenti incontri. Tornammo in Italia più forti di quando eravamo partiti.
Questo episodio mi ricorda lo spirito con il quale ci siamo allenati tutti i giorni per anni e con cui abbiamo partecipato alle gare internazionali. I frutti sono stati abbondanti: sono diventato campione europeo per tre anni di fila, nel 1971, 1972 e 1973. Poi sono stato vicecampione del mondo nel 1971 e nel 1973 a Tokyo e di nuovo nel 1975 a Los Angeles. Grazie agli allenamenti del M° Shirai e alla determinazione con la quale cominciammo ad allenarci fin da subito, fummo presto in grado di andare a competere a livello europeo e poi mondiale con ottimi risultati.
Il M° Taiji Kase eseguiva le tecniche con grande potenza e velocità esplosiva, ma al tempo stesso con una leggerezza ineguagliabile.
Che cosa ci racconti del Maestro Kase?
Il M° Taiji Kase eseguiva le tecniche con grande potenza e velocità esplosiva, ma al tempo stesso con una leggerezza ineguagliabile. Ancora oggi, se alzo gli occhi dalla scrivania del mio studio di Milano vedo alla mia sinistra una sua fotografia, con il suo volto serio, quasi enigmatico, ampio e massiccio portale dietro al quale si celava un’anima leggera e piena di brio. La cosa che più caratterizza la sua foto sono gli occhi. Uno potrebbe aspettarsi uno sguardo duro, deciso, pronto a uccidere, terribile, che incute timore. Invece, dai suoi occhi traspare una luce amorevole, che ti tocca con dolcezza, che ti guarda con un’umanità infinita, rivelando la sua grande tenerezza interna, il suo amore compassionevole per le persone. Ti fa sentire accettato e amato.
Il M° Kase era dotato della ineguagliata capacità di entrare in sintonia con il mondo circostante. In palestra, durante la guardia, ci spiegava come disporci all’ascolto per capire il modo in cui l’avversario ci avrebbe attaccato prima ancora che il colpo venisse portato. Per illustrare meglio il concetto, quasi senza guardarci, con gli occhi stretti a fessura, ci diceva il colpo che stavamo preparandoci a scagliare contro di lui. Aveva sviluppato una capacità quasi chiaroveggente che lui chiamava “la quarta dimensione”. Era impressionante vederlo all’opera, perché coglieva sempre nel giusto con ognuno di noi. Praticando il karate tradizionale non avevo seguito un percorso semplicemente sportivo, ma qualcosa di più. Fu proprio il M° Kase, un giorno, a dirmelo nel dojo in modo apparentemente indiretto. Mi chiese: «Luigi, tu stai facendo il karate da oltre dieci anni, non è vero?» Lì per lì non capii la domanda. Perché me lo chiede? – mi dissi – Lo sa benissimo che sono dieci anni che faccio karate. Kase continuò: «I dieci anni sono il giro di boa per uno che ha praticato il karate come te. Ora sei come un bicchiere pieno di acqua, cioè di tecnica. Hai passato dieci anni per riuscire a colmare questo bicchiere. Adesso fermati: devi solo aggiungere un po’ di acqua, un po’ di tecnica, ogni giorno per mantenerlo pieno. A un certo punto il bicchiere si romperà e avverrà una rivoluzione dentro di te. Tutto si capovolgerà, non sarai più tu, cioè il tuo ego, a trascinare, ma lo spirito risvegliato dentro di te, il tuo sé profondo, che emergerà e ti guiderà indicandoti in modo intuitivo la strada nelle azioni e nella vita». Avevo 26 anni e quell’indicazione, che non era né un suggerimento né un ordine, piuttosto una constatazione, si fece strada dentro di me.
Praticando il karate tradizionale non avevo seguito un percorso semplicemente sportivo, ma qualcosa di più. La pratica zen di quell’attività, dopo dieci anni, mi stava trasformando in qualcosa di diverso. Infatti, dopo aver assimilato tutte le tecniche di base, i gesti erano diventati spontanei, istintivi. Per i gesti del karate ci vogliono dieci anni, per i gesti della cerimonia del tè probabilmente meno, perché ha una complessità diversa. Per il tiro con l’arco, il kyudo, ci vogliono circa cinque anni, come ha scoperto e raccontato Eugen Herrigel [Lo Zen e il tiro con l’arco, Adelphi, 1975. ndr]. Ma in ogni caso, quando è il momento, cambia qualcosa. L’azione diventa molto più che automatica, istintiva, naturale. La mente si svuota. Non sei più tu che usi la tecnica del karate, indirizzandola verso i tuoi obiettivi, ma è lei a muoversi decidendo il tempo e il luogo dell’esecuzione. Ancora di più, in modo più generico e ampio, c’è qualcosa dentro di noi che si muove da sola, che prende il sopravvento sulla mente razionale e inizia a guidarci verso il nostro bene e verso la giusta direzione per la nostra crescita e il nostro apprendimento interiore. Questo, però, era solo una parte di quello che mi stava dicendo il M° Kase. Quel che mi stava dicendo in più era anche che avevo interiorizzato il karate al punto che adesso dovevo seguire l’istinto, non più solo la logica, nelle mie scelte di palestra e di vita. Quel momento ha rappresentato il mio spartiacque. Da allora ho cominciato ad avere più fiducia e ad ascoltare sempre il mio istinto, cioè a seguire lo spirito, quella intuizione che sentivo nascere di volta in volta dentro di me, e che attraverso gli anni ho imparato ad ascoltare.
Questo era il metodo appreso dal karate… È proprio grazie alla continua applicazione di questo metodo alla mia vita che ho realizzato il mio successo personale e professionale.
Nel tuo libro Cadere sette volte… rialzarsi otto, racconti che gran parte del tuo successo si è realizzato grazie all’applicazione del metodo acquisito nel karate alla tua vita e al tuo lavoro. Puoi spiegarci meglio come?
Il karate mi ha insegnato innanzitutto l’energia del guerriero. In palestra o in gara ti metti di fronte a degli avversari, ma essi sono solamente dei punti di riferimento per testare te stesso. In palestra e in gara ti testi sulla tua flessibilità, la tua concentrazione, il tuo potenziale, le tue paure e così via… Illudendoti di avere un avversario da battere, te ne stai in palestra ore e ore ad allenarti, così da essere in grado di diventare più bravo per poterlo vincere in gara. In realtà la palestra o la gara sono solo occasioni per svolgere un lavoro interiore, su te stesso. Dopo un po’ ti accorgi che mano a mano che progredisci dentro, migliori anche fuori. In questo senso il karate ha contribuito a formare la persona che negli anni sono diventato, insegnandomi a capire che bisogna fare ogni cosa come se fosse quella che fa tutta la differenza. Grazie al karate ho appreso che non ci sono scorciatoie, bigliettini magici, passaggi privilegiati, raccomandazioni, assunzioni a tempo indeterminato. Occorre un impegno totale, ma organizzato, sia da un punto di vista mentale sia fisico, emozionale e spirituale. Bisogna costruire se stessi con serietà, dall’interno, altrimenti si scherza, si fa per finta, non si va da nessuna parte.
Quando nel 1982 mi trasferii definitivamente negli Stati Uniti per intraprendere la mia carriera professionale presso la City Bank di New York, realizzai che la mia priorità in quel momento sarebbe stata la mia carriera di lavoro. Tuttavia, continuai a vivere a New York secondo lo spirito e i valori che avevo acquisito dopo tanti anni di pratica del karate con il M° Shirai, applicando così al mio lavoro il metodo appreso per anni nel karate. La stessa meticolosità, la stessa attenzione esasperante, la stessa passione. La stessa intenzione profonda. Lo stesso atteggiamento deciso. Avevo imparato a immergermi nel momento presente, dimentico di tutto ciò che avveniva attorno a me, sino a diventare tutt’uno con ciò che stavo facendo, in una completa unione mentale, emozionale e fisica.
In altre parole, presi la decisione di applicare il concetto di Shinkitai al mio lavoro in banca. Questo significava fermarsi su ogni singola cosa e rimanerci fino a quando non era stata capita nel suo contenuto e in tutte le sue ramificazioni e assimilata completamente. Era chiaro che tale approccio rallentava la velocità di esecuzione del lavoro, ma sapevo che era l’unico metodo che mi avrebbe permesso di costruirmi delle solide basi. Se mi trovavo di fronte a qualcosa che non sapevo in forma scritta, leggevo o rileggevo, mi fermavo su qualunque concetto che non era familiare, lo approfondivo facendo ricerche o chiamando colleghi esperti con i quali discutevo il nuovo concetto. Non m’importava quanto tempo stavo dedicando, l’obiettivo era uno solo: capire e imparare a fondo qualunque cosa con cui fossi venuto in contatto. Non importava lo sforzo, avevo tutto il tempo necessario. Se qualcuno mi presentava un’idea o un progetto, non gli permettevo di andarsene fino a quando non lo avessi capito a fondo e non mi fossi creato mentalmente un’immagine tridimensionale, vedendo nella mia mente tutte le possibili applicazioni e conseguenze derivanti da quell’idea.
Questo era il metodo appreso dal karate, come ho detto, in cui gioca un ruolo chiave il concetto della consapevolezza. È proprio grazie alla continua applicazione di questo metodo alla mia vita che ho realizzato il mio successo personale e professionale.
Ringrazio di cuore il M° Shirai per l’integrità e la purezza dei suoi insegnamenti, i quali hanno contribuito a formare la persona che oggi sono diventato.