Non possiamo accedere all’hara e alla sua energia, se il nostro respiro è bloccato.
(In KarateDo n. 31 lug-ago-set 2013)
In collaborazione con il M° Riccardo Frare
La respirazione è un aspetto della vita facile da ignorare, nonostante lo si abbia proprio sotto il naso…
Con il primo respiro entriamo di diritto e definitivamente nella vita umana e con l’ultimo, infine, ne usciamo.
In questo articolo, per respiro non intendiamo unicamente la funzione metabolica di scambio gassoso all’interno degli alveoli polmonari. Questo infatti è un argomento di sicuro interesse culturale, ma che riguarda i sistemi omeostatici per il mantenimento delle funzioni vitali, dimensione questa che lascia ben poco spazio all’intervento cosciente e volontario per un miglioramento di noi stessi. Sebbene non impossibile, quella è una zona microscopica e di difficile accesso consapevole.
Il diaframma è la sede principale dell’instaurarsi di tensioni psicosomatiche croniche.
Per respiro, trattando qui la pratica del Karate Do, ci riferiremo invece all’onda respiratoria, che presenta ben più possibilità e stimoli per una ricerca e un processo di scoperta e di miglioramento autonomi.
Blocco il respiro = blocco la vitalità
La motilità dell’onda respiratoria è la più potente arma per inibire la propria vitalità. Ciò che veniva chiamata da Wilhelm Reich, allievo di Freud, armatura carattero-muscolare, non è altro che una deformazione della naturale onda respiratoria di un neonato sano. Fortunatamente, la conoscenza e l’ascolto del proprio respiro sono anche la chiave per riappropriarci del nostro respiro originale. Solo ciò che ha apparentemente imprigionato la nostra natura può anche liberarla.
Che cos’è un’onda respiratoria sana?
È sufficiente osservare come respira l’organismo di un bambino neonato, sano e privo di traumi perinatali: si nota come il petto è libero di salire e scendere, anziché essere bloccato a causa della contrazione spastica dei muscoli intercostali. L’onda, inoltre, si espande fino al bacino, con un movimento ondulatorio dal bacino al petto. Questi movimenti, oltre a permettere una migliore areazione degli alveoli basali e apicali, massaggiano in profondità i visceri, migliorando e rendendo più tonica la peristalsi intestinale.
Il motore che genera quest’onda è il diaframma. Un muscolo molto grande, ma pressoché sconosciuto e non percepito ai più. Esso, come lo stesso dice già dal nome, crea una divisione fra il cervello e il sistema cardio-polmonare e gli aspetti profondi di digestione e sessualità.
Il diaframma è la sede principale dell’instaurarsi di tensioni psicosomatiche croniche. Questo perché è il muscolo deputato, tramite la respirazione e la fonazione, all’espressione delle emozioni. Bloccando il diaframma blocchiamo o diminuiamo sensibilmente l’espressione delle nostre emozioni, così come, trattenendo il respiro riusciamo, ad esempio, a trattenere il pianto o una risata. Se tale atteggiamento diventa, anche in piccola parte, uno stile di vita proprio nel periodo sensibile di sviluppo dell’IO (0-6 anni, semplificando), può instaurarsi una tensione psicosomatica cronica. Qualunque nevrosi, afferma lo psicologo Wilhelm Reich, è sempre accompagnata da un blocco nella naturale onda respiratoria.
Il diaframma divide o collega?
È molto interessante l’etimologia della parola diaframma, dal greco dia- (al di là) -fero (separare), ma anche (trasportare).
Proprio come la comune esperienza, il diaframma può essere un mezzo di divisione fra mente e corpo, così come un trasporto, un mezzo in grado di collegarli.
Esso, in un’ottica sana ed evoluta, rappresenta un ponte di collegamento fra volontario e involontario, fra conscio e inconscio. In definitiva, fra il nostro “nome e cognome” e la vita senza nome che è in noi.
È uno dei pochi muscoli ad avere la possibilità di un controllo semi/volontario. Proprio qui si gioca la caratteristica del diaframma e il motivo per cui qualunque pratica spirituale lo evidenzia come strumento principe d’accesso. Impossibile soprassedere sul fatto che spirituale sia dal latino spiritus, cioè respiro.
Non entreremo nel dettaglio, perché non è questa la sede, ma depressione, ansia, angoscia, panico, sono tutti stati emotivi caratterizzati da una ben precisa economia respiratoria.
Risulta evidente che è impossibile accedere al bacino (hara) e alle sue potenti energie per averne un’esperienza diretta, fruibile, se la respirazione è bloccata e non è in grado di portarci “fin là”. Emerge che i numerosi anni di pratica non sono l’unica garanzia per un reale progresso tecnico, è necessaria anche una corrispettiva, matura, capacità di ascolto e conoscenza di sé. Non c’è nulla di più chiaro del proprio respiro per conoscere veramente se stessi.
Depressione, ansia, angoscia, panico, sono tutti stati emotivi caratterizzati da una ben precisa economia respiratoria.
Karate do e respiro
Si parte da cintura bianca imparando a respirare in armonia con le tecniche. Se è lento il pugno, sarà lento il respiro, se è veloce, veloce e così via.
Per arrivare al M° Kase:
“Nello Zen si scoprì che dopo la respirazione ordinaria o pettorale, a livello dei polmoni, esisteva un metodo per far scendere l’aria mediante la respirazione verso il centro del corpo, fino all’Hara. Questo dava una maggiore stabilità e più facilità per controllare l’interno del corpo: i movimenti miglioravano notevolmente […] Perciò, si utilizzò la respirazione in questo modo: comprimere l’aria verso l’Hara, mantenerla lì compressa e utilizzare quest’energia extra come forza esplosiva per la realizzazione delle tecniche. Respirando correttamente verso l’Hara e facendo questa compressione, potremo generare una forza esplosiva indipendentemente dalla tecnica”. (Rincòn)
Fra queste due polarità c’è la moltitudine di praticanti, ognuno con il proprio respiro:
- apnea
- suoni labiali o gutturali
- respirazione unicamente toracica e “alta”
- respirazione rumorosa e affannosa
- “soffiare”durante l’espirazione
- difficoltà nell’uso di suoni durante l’espirazione
Sono solo alcuni degli esempi che delineano un grado di tensione e blocco del respiro.
Ascoltare il respiro
“Quando si lavora con una persona che ha un importante blocco nevrotico, è facile constatare come per lei sia del tutto impossibile lasciare liberi la respirazione e il movimento. Se viene invitata a lasciare libero il respiro non comprende questo suggerimento come ‘Non interferire volontariamente con il respiro’, ma come ‘Respira in modo più ampio’. E se le si chiede di lasciar libero il respiro sincronizzandolo con il movimento, adotterà una qualità di movimento e di respirazione controllati e meccanici.” (Marchino)
I numerosi anni di pratica non sono l’unica garanzia per un reale progresso tecnico.
Riuscire ad ascoltare, in yoi, o in seiza la propria onda senza respirare volontariamente è la prova di essere riusciti ad andare un po’ più al di là del consueto. Vedere il respiro da svegli significa lasciare che esso faccia il proprio lavoro e non intervenire, “non toccare nulla”.
Nella pratica è sufficiente fare questa piccola esperienza:
mentre leggete quest’articolo il vostro respiro va in automatico. Ora ascoltatelo. Probabilmente tentenna, in attesa di ricevere determinati ordini. Lasciamolo libero di muoversi continuando a osservarlo, senza dargli comandi e senza far entrare alcun pensiero che ci allontani dall’esperienza. Il confine è sottilissimo, ma la differenza enorme. Non è facile, ma ci sono ampi margini di miglioramento!
Osservare il respiro e il suo fluire (quindi da svegli!), prevede da parte nostra l’abbandono, la resa incondizionata. La perdita del controllo volontario egoico. Sotto l’ottica del respiro quello che viene definito nelle arti marziali come autocontrollo andrebbe meglio definito come autoconoscenza.
“Trattenendo il respiro la mente si arresta,
come un uccello preso in una rete.
In questo modo si controlla la mente.
Poiché hanno un’unica origine,
la mente e il respiro,
da cui germogliano il pensiero e l’azione,
sono due rami di uno stesso albero.”
(Maharishi)