Il saluto, l’inchino, il karategi… Cos’è che qualifica la forma e la riempie di sostanza?
(In KarateDo n. 29 gen-feb-mar 2013)
I bambini, nelle scuole elementari giapponesi, a fine lezioni puliscono i locali che hanno utilizzato, quindi, le aule, la palestra, i bagni. Questa metodica produce un’educazione profonda che si imprime nell’essere e fiorisce poi in ogni aspetto della vita.
Le arti tradizionali del Giappone richiedono modalità di comportamento che a volte sono definite in modo superficiale “formalismi”, ossia fattori attribuibili all’etnia, alla storia, alla geografia e sociologia tipiche di un popolo. Tuttavia, se ci si spinge in profondità nell’analizzare i canoni che definiscono le forme tradizionali, si scopre la loro sostanza. Questa sostanza, pur perseguita con modalità specifiche ed etnicamente connotate, contiene valori universali. La base su cui poggia questa sostanza è definita armonia (wa), armonia nel proprio corpo, nel proprio habitat, nelle relazioni e così via.
La base su cui poggia questa sostanza è definita armonia (wa), armonia nel proprio corpo, nel proprio habitat, nelle relazioni.
Il problema, nella pratica e nella fruizione dei valori espressi nelle forme tradizionali, si pone se l’assunzione di una data forma si traduce in un formalismo vuoto di contenuto significativo.
Quindi, cos’è che qualifica la forma e la riempie di sostanza?
Noi, con i nostri limiti e la nostra potenziale libertà di affrancarci dai medesimi, perciò, noi possiamo esercitare la nostra capacità di adesione a una data forma riempiendola di sostanza, di vita.
Questo è abbastanza facile da capire quando si esegue un kata, mentre è più complesso con forme quali il rei, lo seiza, il mokushō. È molto importante proporre e produrre un’educazione piena, completa in ogni aspetto della pratica a partire dallo spogliatoio e oltre… – Spero che così risulti più chiara la premessa iniziale relativa agli alunni delle elementari giapponesi che uniscono alla didattica anche il lavoro -.
Rei, è la premessa per dare vera profondità alla propria pratica. Per entrare e uscire da un dōjō ci si inchina verso lo shōmen, che è quella parte dove di solito sono poste le immagini dei maestri della scuola e a volte, particolarmente in Giappone (ma anche in Cina), vi si trova un piccolo butsudan (altare) buddhista o shintō-buddhista, che sono le religioni storiche del Giappone.
L’inchino va eseguito portandosi in musubi dachi con le braccia lungo i fianchi, si inclina il busto in avanti di circa 30° a partire dal tanden, quell’area posta circa due dita sotto l’ombelico. È molto importante tenere il mento rientrato e non sporgere le natiche indietro mentre lo sguardo è in avanti. (Le natiche dovrebbero cadere perpendicolari sui talloni, quindi potrebbe essere necessario flettere leggermente le ginocchia. Riassumendo: piedi forti e morbidi in contemporanea, ginocchia flesse che non perdono quanto è sotto e sopra di loro, natiche perpendicolari ai talloni, spalle morbide, mento rientrato, sguardo in avanti e non a terra. È una pratica che proviene dal buddhismo e richiede piena e totale concentrazione. Il proprio essere totalmente qui-ora.)
Questo assetto va praticato come qualsiasi altra forma e perfezionato costantemente, cercando di cogliere le dinamiche psicofisiche che contiene e induce e che rispondono a specifiche condizioni psichiche. Per esempio, inclinarsi troppo o troppo poco non è corretto, c’è una misura tra questi estremi che predispone il giusto atteggiamento mentale, che poi va a calarsi nelle cause e condizioni in cui ci si ritrova, ovvero nella pratica.
La nostra pratica influenza ed è a sua volta influenzata da quella degli altri. Prima dell’inchino, del rei, si sistemano il proprio abito e l’aspetto generale, quindi: niente maniche rimboccate, capelli in disordine e il karategi dovrebbe essere lavato ogni due allenamenti. È evidente che la cura posta costantemente in ogni aspetto e particolare, concorre a produrre una mente, uno spirito, un corpo-mente vivo, pienamente presente e attento a ogni cosa, e ogni cosa ci richiama a essere consapevoli di quanto realmente stia accadendo qui-ora.
Noi e gli altri, noi e lo spazio, noi e gli oggetti, siamo perennemente in interdipendenza, quindi ogni strumento utile che ci educa a questa realtà va usato appropriatamente. La presenza costante alle forme assunte dal proprio corpo e la continua rettifica degli errori nella ricerca della forma/sostanza originale, statuiscono la qualità della nostra pratica, del nostro studio. Quindi, posto che la nostra vita è sostenuta da altre forme di esistenza, l’atteggiamento corretto è il rispetto verso ogni cosa. Questo produce una consapevolezza, una coscienza ampia e illimitata in grado di stabilire il giusto grado di reciprocità verso ogni fenomeno.
È evidente che la cura posta costantemente in ogni aspetto e particolare, concorre a produrre una mente, uno spirito, un corpo-mente vivo.
Durante un confronto di kumite si è soli, è bene che si sia soli, nessuno dovrebbe disturbare i contendenti, nessun coach, (Coach è un termine sportivo che andrebbe sostituito con quello di istruttore e maestro in ambito domestico, mentre internazionalmente sarebbe da preferire il termine sensei che trovo più rispondente ai nostri valori di riferimento.) nessun tifo da stadio, all’hajime si penetra in una dimensione di assoluta concentrazione.
Durante un combattimento, anche un kata è un combattimento, si è soli con la propria libertà e con i propri limiti e questo è un momento topico per verificare: chi sono, vale a dire la mia identità, con quello che sto facendo e quali sono le mie condizioni, le mie caratteristiche, il mio spirito, il mio carattere. Di fronte al mio contendente devo essere affrancato da tutto, siamo io e lui e niente altro (Diverso è l’allenamento nel dōjō dove il maestro può intervenire per stimolare, sollecitare il superamento di particolari contingenze e impasse nell’allievo). Su questo piano anche le bandiere, le appartenenze, dovrebbero scomparire, in quanto rappresentano un ambito esistenziale altro.
Tutti dovrebbero ricordare l’esempio del Maestro Kase che rifiuta l’offerta di diventare insegnante della Federazione francese di karate perché percorre un’altra strada ed è orientato verso altri valori, non rappresentabili o contenibili da alcuna medaglia o coppa. La stella polare del Maestro Kase è l’infinito che non può essere contenuto in alcuna sigla e se una sigla deve esserci, dovrebbe essere più vicina possibile alla rappresentazione del “senza limite”.
Continuando la riflessione sul senso di forma e sostanza a noi riferito, è lecito affermare che un karategi dovrebbe essere bianco e l’effimero, rappresentato dalla stagionalità delle mode in voga, che accorciano di qua e allungano di là, non dovrebbe riguardarlo e nella sua purezza andrebbe preservato e custodito gelosamente.
Nello Zen si ama contraddittoriamente dire che “l’abito fa il monaco”, perché sempre e comunque, al di là della persona che lo indossa, esso preserva, propone e testimonia valori antichi ed eterni. Quindi, un karategi non dovrebbe avere alcuna bandiera appiccicata sopra, una bandiera rappresenta sempre un limite e afferisce alla realtà convenzionale, che spesso non è congruente rispetto quello cui tende la Via del karate. Un karategi, oltre all’etichetta del produttore posta al limite del bordo inferiore sinistro della giacca e vicina alla cintura dei pantaloni, non dovrebbe averne altre e il nome del suo possessore andrebbe posto sul bordo inferiore sinistro della giacca (sopra l’etichetta del produttore) e di lato subito sotto la cintura dei pantaloni. Il simbolo rappresentativo del proprio dōjō andrebbe posto sul lato sinistro del petto, nessun’altra variabile dovrebbe essere consentita.
Permettere di contaminare il karategi con bandiere, nomi svolazzanti da ogni parte, invadenti sigle del produttore, magari sponsor… è come “calarsi le braghe” di fronte a un avversario molto più pericoloso e subdolo di qualsiasi contendente nel kumite.
Posto che la nostra vita è sostenuta da altre forme di esistenza, l’atteggiamento corretto è il rispetto verso ogni cosa.
Nell’Hōkyō zanmai, un testo classico della formazione Zen del Maestro Tōzan (807-869), c’è scritto: “Se c’è creazione di una differenza, anche infima, questa non può armonizzarsi con il ritmo della musica.” (Taisen Deshimaru, Lo Zen passo per passo, trad. Paolo Imperio, Roma, Astrolabio – Ubaldini Editore, 1981, p. 127.)
E il Maestro Deshimaru così commenta questo passo: “Il minimo piccolo errore, e non è più vero Zen! Se il ritmo non è giusto, la musica diventa falsa. Nello Shin jin mei, si trova: ‘Una differenza della grandezza di un atomo, il cielo e la terra sono separati’.”
Per l’educazione buddhista la libertà dell’uomo sta nell’essere con tutto ciò che è in questo universo. A lui amico o a lui nemico, poco importa.