Il M° Shirai dice che “Bisogna avere il proprio ‘minimo’ sempre alto” e questo vale anche per un buon arbitro di karate.
(In KarateDo n. 24 ott-nov-dic 2011)
Maestro Gazich, dove e quando è nato?
Sono nato a Catania nel 1950, ma solo dopo un anno mi sono trasferito in Argentina, a Buenos Aires, dove ho vissuto fino al dicembre del 1962.
Quali studi ha fatto?
Ho conseguito il diploma di perito aeronautico.
Quale professione svolge?
La mia unica professione, attualmente, è quella di Maestro di karate. Per ben trentotto anni, tuttavia, ho svolto anche il ruolo di insegnante in materie tecniche presso l’Istituto “A. Ponti” di Gallarate.
Ho sempre pensato che nel rapporto tra maestro e allievo siano indispensabili tre cose fondamentali: la fiducia, la fedeltà e la correttezza del comportamento.
Quando e perché ha iniziato la pratica del karate?
Ho iniziato la pratica del karate nel 1972, dopo avere visitato la palestra del M° Giuseppe Beghetto, a Gallarate. In quel momento era in corso un allenamento di cinture marroni che stavano eseguendo il kihon: ricordo che fui subito attratto dalla simultaneità dei movimenti, dall’energia che il gruppo esprimeva e, soprattutto, dall’atteggiamento mentale. Rimasi impressionato e affascinato sin dall’inizio, perché trovai in quest’arte marziale qualcosa di unico che, fino ad allora, non avevo mai riscontrato in nessun’altra attività sportiva: fu così che decisi di iscrivermi al corso insieme a due miei amici, iniziando il mio percorso e la mia avventura nel mondo del karate.
Quando ha conosciuto per la prima volta il Maestro Shirai?
La prima volta che ebbi l’opportunità di conoscere il M° Shirai fu nel 1983, nella sua palestra di via Piacenza, dove mi recai per chiedergli la sua disponibilità ad accettarmi come allievo. Ricordo benissimo quel momento, rimasi impressionato dalla sua personalità carismatica che mi colpì immediatamente. Dopo un breve colloquio il Maestro mi accettò nella sua palestra e questo per me fu motivo di grande onore ed orgoglio. Quel giorno ero veramente molto felice e fu per me una vera svolta.
Che cosa l’ha sempre motivata e la motiva tutt’oggi a seguire la strada del Maestro Shirai?
Sono molto riconoscente al Maestro per il grande contributo che egli ha dato alla mia crescita non solo come karateka ma, anche e soprattutto, come uomo. Quello che mi ha sempre motivato e mi motiva tuttora a seguire la sua strada è proprio la consapevolezza che il suo insegnamento è uno straordinario mezzo di miglioramento personale.
Quando è diventato un maestro di karate?
Iniziai il corso istruttori nel 1976 quando ero ancora cintura marrone I Kyu, come si usava allora. Il corso aveva una durata di due anni e si svolgeva di sabato e domenica, ogni quindici giorni, per un totale di trentasette lezioni. Le regole erano rigidissime: in tutto l’arco dei due anni era possibile assentarsi per una volta sola, dopodiché, alla seconda assenza, non si veniva più ammessi agli esami per qualunque motivo. Oltre al fatto di dover essere sempre presenti, la cosa più importante era quella di riuscire a resistere per tutta la durata dell’allenamento. Furono due anni molto intensi e molto duri! All’epoca si erano iscritte numerosissime persone, ma solo sette sostennero l’esame finale e furono promosse. Rientrai tra quelle sette persone e conseguii così il mio diploma nel 1978. Dopo alcuni anni, nel 1982, conseguii anche la qualifica di maestro.
Perché ha deciso di diventare un maestro di karate?
Mi piaceva insegnare, diventare istruttore e poi maestro è stata la naturale continuazione di un percorso di ricerca. Nella mia vita, infatti, ho sempre svolto attività legate all’insegnamento: insegnante a scuola, istruttore di scuola guida e poi, anche maestro di karate. Tra le varie attività che ho insegnato, tra l’altro, il karate mi è piaciuto sempre in modo particolare, perché la sua pratica e la sua ricerca stimolano in continuazione la mia curiosità e la mia sete di conoscenza.
Vi è una sua qualità di cui va particolarmente fiero?
La mia onestà.
Che rapporto ha con i suoi allievi?
Con i miei allievi ho un rapporto bellissimo, basato sulla stima e il rispetto. Con tutti loro, inoltre, mi sento particolarmente coinvolto anche sotto l’aspetto umano. Ho sempre pensato che nel rapporto tra maestro e allievo siano indispensabili tre cose fondamentali: la fiducia, la fedeltà e la correttezza del comportamento. La fiducia viene meno se mancano anche la fedeltà e la correttezza. Quando ciò accade, si spezza un legame profondo che molto difficilmente si potrà ricucire.
Qual è la cosa che, più di ogni altra, riesce a trasmettere ai suoi allievi attraverso l’insegnamento del karate?
Cerco di dare loro il massimo e, al tempo stesso, sono molto esigente nel richiedere loro grande impegno e dedizione.
Nella sua storia di karateka c’è qualche aneddoto curioso che vorrebbe raccontarci?
Un episodio di cui ho già parlato altrove e che ritengo sia particolarmente significativo riguarda proprio il corso istruttori che frequentai dal 1976 al 1978. Come ho già detto in precedenza, le regole del corso erano rigidissime. Si iniziava alle ore 8.00 precise. Una domenica mattina, un mio compagno di corso, Gilberto Di Biasio, era un po’ in ritardo. Trafelato e ansante correva verso la palestra… Alle 8.00 in punto la porta della palestra si chiuse praticamente sul suo naso. Era inverno, nevicava e faceva un gran freddo. Gilberto rimase fuori ad aspettare, ma non si allontanò. Oltre la parete lo si sentiva camminare e correre avanti e indietro per scaldarsi. Alle 12.30, vista la sua costanza, il M° Beghetto gli aprì la porta, lo fece entrare, decise di ammetterlo alla lezione e di considerarlo presente. La morale è che non bisogna arrendersi mai! Anche Gilberto arrivò a fine corso e fu tra le uniche sette persone promosse. Se non avesse avuto la costanza di aspettare fuori dalla palestra, al freddo, per più di quattro ore, non avrebbe mai avuto l’opportunità di fare gli esami.
Personalmente, devo gran parte della mia crescita come arbitro al M° Shirai, al quale va sicuramente il merito di aver formato un gruppo arbitrale molto preparato.
Oltre a essere maestro di karate, lei è anche arbitro di livello nazionale ed internazionale, nonché Presidente della Commissione Nazionale Arbitri all’interno della FIKTA: che cosa significa per lei rivestire questo ruolo e cosa l’ha portata a intraprendere la carriera di arbitro?
Il motivo principale per cui ho intrapreso la strada di arbitro è dato dalla consapevolezza della complementarietà tra l’essere arbitro e l’essere tecnico: questi due aspetti sono inscindibili tra loro, soprattutto nel contesto di una Federazione che, come la nostra, dà grande spazio anche alla competizione. Secondo il mio personale parere, un tecnico non sarà mai completo finché non sarà anche in grado di valutare la prestazione di un atleta. Un tecnico, infatti, deve sapere sia preparare sia valutare un atleta. Allo stesso modo, se un arbitro non avesse le necessarie conoscenze tecniche, nemmeno sarebbe in grado di valutare un atleta.
Personalmente, devo gran parte della mia crescita come arbitro al M° Shirai, al quale va sicuramente il merito di aver formato un gruppo arbitrale molto preparato. Con acume, saggezza e una straordinaria metodologia di insegnamento è riuscito a trasmettere entusiasmo e grande capacità tecnica. Inoltre, rivestire il ruolo di Presidente della Commissione Nazionale Arbitri, è per me un grande onore che ha contribuito a stimolare sempre di più il mio desiderio di crescere e di migliorare. Tale carica comporta diverse responsabilità tra cui, in particolare, quella di garantire alla Federazione il mantenimento del livello tecnico del corpo arbitrale, di migliorare tale livello e anche di incrementare il numero degli arbitri, soprattutto nelle regioni in maggiore difficoltà.
Mi ritengo fortunato perché, nello svolgere questo importante compito, ho sempre avuto dei buoni consigli da parte del M° Shirai e ho sempre goduto di una grande collaborazione da parte della Commissione Nazionale Arbitri, dei responsabili regionali e di diversi tecnici e arbitri di grande esperienza con i quali si è lavorato, in tutti questi anni, per creare un clima di serenità e collaborazione nell’intero corpo arbitrale. Tutto questo ha facilitato e facilita il mio lavoro. E proprio per questo, colgo l’occasione di ringraziare tutti gli organi superiori federali per la fiducia che hanno riposto in me: spero di svolgere bene il mio incarico e di non deluderli.
Potrebbe dirci quali sono le qualità essenziali che dovrebbe avere un arbitro di livello nazionale e un arbitro di livello internazionale?
Le qualità e le capacità che deve possedere un arbitro nazionale sono, a mio avviso, le seguenti:
- Grande conoscenza della tecnica e delle strategie di combattimento.
- Conoscenza del regolamento.
- Costante e continuo aggiornamento e allenamento.
- “Colpo d’occhio”, cioè conoscenza, legata all’esperienza, del potenziale tecnico ed esecutivo di un atleta.
- Nel kumite, capacità di intuire la tecnica prima ancora che sia partita.
- Capacità di tenere la giusta distanza e angolazione corretta nel quadrato di gara rispetto alla posizione degli atleti che combattono.
- Incisività, sicurezza e rapidità degli interventi.
- Grande capacità valutativa.
- Onestà e correttezza che portano alla serenità di giudizio.
L’arbitro internazionale deve essere un ottimo arbitro nazionale, con grandissima esperienza e forte personalità, capace di affrontare le situazioni più difficili e di risolvere qualsiasi problema con la massima competenza e semplicità. Il suo operato, inoltre, deve sempre essere ad alto livello. Per concludere, come dice sempre il M° Shirai “Bisogna avere il proprio minimo sempre alto”.