Tutto quello che io posso avere fatto per aiutare il M° Shirai o il M° Kase, l’ho fatto unicamente perché era una mia gioia potere stare vicino a queste persone.
(In KarateDo n.24 ott-nov-dic 2011)
Bruno Baleotti nasce a Bologna il 10.06.42. A 18 anni inizia a praticare judo, vincendo poi i campionati nazionali per cinture gialle. Nel 1966 diventa cintura nera e, poco dopo, conosce il M° Hiroshi Shirai con il quale incomincia a praticare karate presso la palestra Kodokan di Bologna; inizia in seguito a tempo pieno l’attività d’insegnante di karate presso la stessa palestra. Nel medesimo periodo avvia la pratica dell’aikido con il M° Kawamukai. Sotto la guida del M° Shirai lui e le altre cinture nere, formatesi presso la palestra Kodokan, costituiranno in seguito il nucleo della nazionale italiana di karate, nella quale, a partire dai campionati mondiali di Tokyo del 1972, conclusi con un prestigioso secondo posto, Bruno rivestirà il ruolo di capitano per circa dieci anni. Nel 1985 otterrà il 6° dan.
Ora il M° Baleotti vive in uno splendido agriturismo (Le Ginestre), sull’appennino bolognese (Pianoro), con la sua grande famiglia che qui mi sento di ringraziare per la gentilezza, la cortesia e l’eccellente ospitalità ricevuta.
Bruno, quali sono i fattori che hanno maggiormente caratterizzato la tua motivazione nello studio del karate?
Allora, prima di tutto io ho fatto il mio percorso come judoka, quindi, il fatto di passare al karate, era perché ritenevo che il guerriero che si manifesta nel karate fosse più vero, più sincero, e comunque, anche il judo fa parte della tradizione giapponese. Perché mi sono dato al judo? Io sono sempre stato un ragazzo piccolo e mancandomi il padre, perché era morto nei partigiani, mi sono sempre trovato da solo a combattere contro le ingiustizie degli altri amici. Di statura ero molto piccolo, molto gracile, però avevo uno spirito abbastanza indomabile e, quindi, io ero sempre lì che facevo a botte con tutti, perché tutti mi ritenevano uno scartino. Allora, qualsiasi cosa succedesse, fossero uno, due, tre, io mi buttavo a capofitto, volevo fare vedere loro chi ero. È ovvio che ho sempre desiderato avere la possibilità di vincere sugli altri, perché avevo sempre subito queste ingiustizie. Così, ho sempre pensato alla “lotta giapponese” o al karate, perché alla fine ho visto che il judo era limitato per quello che poteva essere un confronto con gli altri, e poi iniziarono a pubblicare libri sulla cultura giapponese, per esempio sul seppuku [Suicidio rituale impropriamente definito harakiri]. E mi chiesi: “Perché uno si fa seppuku?”. Il seppuku si fa perché il proprio principio e il proprio ideale vengono a mancare. Uno dice “Ma sono matti, si fanno seppuku e si uccidono!”, ma perché? Perché non sono attaccati, non c’è l’attaccamento egoistico alla vita come abbiamo noi. Perché, evidentemente, grazie alla loro disciplina vivono attimo per attimo, quindi, tutta la vita vissuta fino al momento che decidono di compiere un gesto così elevato l’hanno vissuta con coerenza, per cui, per riuscire a mantenere quello che era il loro principio e ideale, hanno dato la vita.
Per riuscire a conoscersi realmente, bisogna fare dei tipi di allenamento che superino la soglia del proprio limite.
Quotidianamente, come organizzavi i tuoi allenamenti, la tua preparazione? Come lavoravi sugli aspetti nei quali ritenevi di essere carente?
Io ho sempre ritenuto di essere carente in tutto, perciò il mio allenamento era quello di trasformare un corpo da carente a fortissimo. Ecco perché ho fatto lo scalatore, ecco perché facevo le corse con 20 kg attaccati ai fianchi anche per 10-15 chilometri, ecco perché mettevo le corde nelle trombe degli ascensori, dove non c’erano ascensori per salire, come nella mia prima palestra in Strada Maggiore. Tu forse non ti ricordi, ma noi avevamo la palestra all’ultimo piano e io salivo e scendevo con la corda lungo la tromba dell’ascensore, nessun altro ci riusciva.
Questo mi rimanda a una volta che eravamo in autobus in Giappone e c’era Miura [Miura Masaru, oggi rappresentante in Italia della Federazione Internazionale del M° Kanazawa] che si era attaccato alle prese a mano del bus cercando, senza riuscirci, di tirarsi su con una mano e mi ricordo che Shirai disse: «Qui, solo uno è capace di fare quello – poi guarda me – vero Bruno? Bruno san?», «Oss Maestro».
Come facevo le flessioni? Mi attaccavo a una finestra, a cavallo della finestra, prendevo il muro in alto tra le braccia e mi sollevavo una volta a destra e una a sinistra. Questo mi è servito poi per arrampicare in montagna, dove ho fatto anche delle nuove vie che nessuno aveva mai fatto. [Il M° Baleotti è istruttore del Club Alpino Italiano (CAI) e, tra gli altri, nel 1975 scalò il Karakorum sull’Himalaya sulla cui cima piantò il vessillo della fratellanza universale. Oggi scala ancora e conduce gruppi in questa profonda esperienza].
Qual è la componente mentale sulla quale hai maggiormente fatto leva nel forgiare la tua pratica?
È quello che ho detto all’inizio, però mi ricordo che da ragazzo davanti allo specchio dicevo: “Ma in realtà, chi è quella persona riflessa?”. Io, già lì intravedevo che Bruno Baleotti non si conosceva assolutamente. Allora, per riuscire a conoscersi realmente, bisogna fare dei tipi di allenamento che superino la soglia del proprio limite. Quando tu cominci a superare questa soglia, allora inizi a conoscerti e fino a che questa soglia non viene superata è difficile capire fino a dove puoi arrivare. Ma forse esageravo anche molto, perché poi il corpo risente di un allenamento così particolare.
Che cosa qualificava la vostra pratica degli inizi con il M° Shirai?
È stato fondamentale l’incontro con il M° Shirai, perché è stato quello che ha determinato la mia vita. La mia vita è cambiata e questo è merito suo, così come altre centinaia di persone hanno cambiato la loro vita, perché io sono stato il loro maestro grazie al fatto che il M° Shirai ha insegnato a me e io a mia volta a tanti altri.
Il Maestro conduceva allenamenti che noi non avevamo mai fatto. Mi ricordo un agosto, di non so quale anno, in cui io e Nando Balzarro fummo invitati dal M° Shirai a fare allenamento per una settimana con lui e il M° Kase, eravamo in quattro. Questo a dimostrazione che il M° Shirai credeva in noi, nelle nostre possibilità. Ricordo che ci si allenava al mattino tre ore e al pomeriggio due. Il primo impatto fu che si faceva age uke gyaku tsuki da fermi, eravamo in circolo, mille a destra e mille a sinista. Soto ude uke gyaku tsuki, mille a destra e mille a sinistra. Ognuno contava 10 e 10 e 10… Mae geri, mille a destra e mille a sinistra… E come prima lezione era già sufficiente quella. Al pomeriggio, si facevano gli ura kata, alla rovescia, dove invece di avanzare si arretrava e ci si girava in modo contrario all’usuale. Tutte le volte che uno sbagliava, in quel caso io o Nando, dovevamo fare giri di saltelli attorno alla palestra. E questo era il primo giorno! Già lì, non sapevamo se saremmo stati in grado di affrontare il secondo giorno di allenamento…
Il secondo giorno si metteva in pratica l’age uke gyaku tsuki con un compagno, mille e mille… con Kase e Shirai… E così anche con i calci. Di pomeriggio si eseguiva il tutto in movimento e lì i piedi iniziavano a sanguinare. Alla sera, mi ricordo Nando e Baleotti con i piedi per aria tutti fasciati a causa delle vesciche! Il giorno dopo abbiamo iniziato a fare lezioni, chiamiamole “normali”, e naturalmente le vesciche si sono rotte tutte, ma non solo, tutta la pianta del piede era sanguinante, non c’era più pelle sotto, tant’è vero che via via che ci si allenava era talmente copioso il sangue sul parquet che Kase e Shirai scivolavano ed è stata la prima volta che ho sentito il M° Kase dire: «Stop, così è troppo forte». Fortunatamente poi, gli altri giorni, vennero Falsoni, Ottaggio, Parisi, il gruppo genovese, più Falsoni di Milano e quindi la tensione era già diminuita. Comunque, da quella esperienza ognuno è diventato più forte, perché ha superato quelli che erano i propri limiti.
Quali ritenevi fossero i limiti principali, se ve ne erano, che rilevavi nel nostro approccio di occidentali allo studio del karate?
Il M° Shirai era il responsabile J.K.A. per l’Italia e voleva creare un gruppo che potesse confrontarsi sullo stesso piano con i giapponesi, quindi, lui ha cercato le persone adatte per questo scopo, coloro che non erano adatti venivano scartati per quello che riguardava le gare. Il suo progetto era quello di portare l’Italia a misurarsi da pari a pari con i giapponesi, come carattere, come spirito, come tecnica.
Pensi che lo studio del karate richieda e formi allo stesso tempo una personalità disposta ad andare sempre oltre ogni limite?
Sì, sì, certo, però non tutti possono arrivare a quel grado, non tutti possono avere il M° Shirai e il M° Kase a disposizione, nella vita ci vuole anche fortuna. Io lì non la ritenevo fortuna, lo ritenevo uno sforzo, perché non conoscevo ancora la consapevolezza, non conoscevo ancora che non è che bisogna rifiutare il dolore, nel dolore bisogna entrarci, si deve essere consapevoli di quello che si sente e allora si vive pienamente il momento. Ci sono molte persone che nel momento del dolore, nel momento della fatica, nel momento dello sforzo, portano la mente da un’altra parte, perché non vogliono vivere quel momento così disastroso ed è proprio quello che lo Zen insegna. Bisogna vivere quel momento lì, perché in quel momento cominci a capire la realtà della vita. Lì, bisogna vivere proprio il momento di… chiamalo sconforto, perché la Via è sempre stata detta karatedo, la Via del karate, la Via della vita. Vale a dire che se tutte le volte che tu trovi una difficoltà e con la mente vai altrove, non prenderai mai spunto da quel momento di vita che ti può insegnare qualcosa, lo fuggi e basta. Una persona, perché si droga? Perché beve? Perché vuole fuggire la realtà, perché non l’accetta, ne ha paura e invece il karate ti insegna ad accettare quella che è la realtà della vita. Allora, secondo me, il karate ti dovrebbe aiutare anche nella formazione della vita, del tuo futuro, a partire proprio dal momento presente, qualsiasi esso sia.
Quando qualcuno, rispetto a qualsiasi cosa, ma qui soprattutto nel karate, si pone a priori dei limiti, parte prevenuto, su cosa dovrebbe lavorare per aprirsi a una dimensione esistenziale più ampia e profonda?
Una volta, quando diventai istruttore del C.A.I., io e altri decidemmo di scalare una montagna abbastanza impegnativa e ci chiedemmo: “Siamo preparati?”, si trattava della Marmolada (3343 m.) nella parete sud, c’era anche Roberto Baccaro.
Alla mattina presto partimmo, la giornata era stupenda e iniziammo a salire piano piano. A circa metà percorso, il tempo cambiò in peggio, si mise a nevicare e noi non eravamo attrezzati per la neve e avevamo poco cibo con noi. Nelle pareti, che potevano essere di 2°-3° grado e con una patina di ghiaccio, il momento iniziava a essere molto pericoloso, allora decidemmo che io avrei cercato di arrivare su e il compagno con me avrebbe portato gli zaini seguendomi attaccato alle corde. Mi ricordo che la corda era diventata rigida per il ghiaccio, dato che era bagnata, così come gli abiti che indossavo. C’erano dei passaggi in cui vedevi un gran buio e avevi mani e piedi freddi, per cui cercavo di salire per uscire da quella situazione. Rammento che durante quella fatica, che implicava anche tirar su l’altro con me, mi attraversò il pensiero di abbandonarmi al vuoto e, precipitando, tutto sarebbe terminato in un attimo. Però, lì scattò il rifiuto, pensai “io arrivo dal karate, un’esperienza in cui quando uno si pone un traguardo ci deve arrivare” e allora piano piano raggiunsi la cima. Ricordo che il mio compagno quando vide che c’era una croce altissima piena di ghiaccio disse: «Non tirare, non tirare!», ma io continuai a camminare tirandolo. Arrivato alla croce l’abbracciai, poi arrivò anche lui ed entrammo in un bivacco, ci spogliammo e, in mancanza di coperte, ci stendemmo su dei materassi ricoprendoci con altri materassi. Poi, ci siamo messi a piangere, perché è stata un’esperienza incredibile e credo di essermi salvato grazie allo spirito forgiato con il karate. Pensa che erano già pronti i soccorsi… Quando siamo arrivati giù ci hanno chiesto come avevamo fatto a scamparla, perché a 3300 metri quando c’è neve e ghiaccio… Io mi sono congelato le mani, i polpastrelli, ci ho messo cinque anni per farli ritornare normali. Certo, se non avessi fatto karate, forse nemmeno avrei fatto l’arrampicata, l’alpinismo.
Il suo progetto [del M° Shirai] era quello di portare l’Italia a misurarsi da pari a pari con i giapponesi, come carattere, come spirito, come tecnica.
Qual era, nella tua personale pedagogia di insegnamento, uno dei valori cui tenevi maggiormente?
Io penso che la moralità profonda non serva solo a chi pratica meditazione, perché il karate è meditazione, è la base di una meditazione, ma forse uno non sa cosa possa essere la moralità. Cos’è la moralità? Non rubare?…dire sempre la verità?… non approfittare di un’altra persona?… essere sempre sinceri su tutto?… Molte volte si è obbligati a dire menzogne per il bene degli altri.
Però, la verità del karate dev’essere sempre quella: quando fai l’inchino al tuo avversario, questo inchino significa “io sono sincero” e, quindi, ci vuole sincerità, ci vuole mo-ra-li-tà, l’inchino non dev’essere una semplice formalità, dev’essere vero. Perciò, tutto quello che fai deve corrispondere a una moralità totale. Dire la verità, non approfittare della tua forza perché sarebbe immorale farlo. Io, anche nello yoga insegno sempre la stessa etica presente nel karate: un mio allievo io lo amo, cioè gli voglio bene, cerco di proteggerlo, poi, se capita che uno abbia un’avventura… è ovvio, siamo tutti uomini e non tutti possono essere perfetti, tuttavia strada facendo risulterà più chiaro com’è etico comportarsi nelle relazioni. L’importante è che di fondo ci sia la propria capacità di decisione riguardo la propria moralità; è semplice dire “moralità”, però il concetto è molto complesso, perché nessuno ti obbliga a praticarlo se non lo spirito che è dentro di te e che ti obbliga lui stesso, se non lo ascolti non riuscirai mai a incontrarlo. Poi, se non siamo onesti con noi stessi figurati un po’ con gli altri!
Come preparavi lo studio, gli allenamenti per le tue classi di studenti? Si fondava sulla risoluzione mirata e integrata di particolari aspetti della pratica che ritenevi carenti?
Il maestro, comunque, quando vede la carenza di una certa tecnica nell’allievo è perché ce l’ha lui. Quindi, egli modifica e modella l’allenamento su di sé e così, risolta la sua carenza, anche gli allievi evolveranno. Troppo comodo dire “fate”, ma poi se uno non sente e comprende quello che il maestro insegna l’allenamento risulta piatto, senza vita. Certo, l’età, la costituzione fisica, l’attitudine personale, incidono sulla capacità di apprendimento ed evoluzione del medesimo, però io, che ero legatissimo, ho imparato a fare la “spaccata”. I duri allenamenti cui mi ero sottoposto mi avevano reso molto rigido, ecco perché poi ho fatto yoga, perché ho sentito la necessità di riuscire a eseguire una tecnica di karate fatta bene, vale a dire senza incontrare opposizioni alla tecnica stessa da parte del mio corpo rigido.
Vuoi dirci qualcosa della tua esperienza in Giappone avvenuta nel 1972-73? Quali sono i karateka che ti hanno impressionato di più? Cosa hai apprezzato del loro karate?
Ti posso raccontare la seconda esperienza avuta in Giappone, perché la prima volta che ci sono andato è andato tutto bene, ci siamo comportati benissimo. L’università del M° Shirai [La Komazawa Daigaku, fondata dalla Scuola Buddhista Soto Zen] rimase molto colpita dal nostro fortissimo gruppo, di cui ero il capitano e lo sono stato per dieci anni.
La seconda volta, mi ricordo che il M° Shirai disse: «Io vado alla JKA, vieni con me?» e io: «Subito Maestro!». Là il M° Shirai vede dei suoi ex allievi e va a combattere, mentre io rimango lì fermo. Arriva un maestro giapponese che s’inchina di fronte a me e ci mettiamo a combattere. Ovviamente, i maestri giapponesi credevano che Shirai non fosse riuscito a portare i suoi allievi sul loro stesso piano di preparazione. Il maestro che faceva con me [Oishi Takeshi, maestro presso la Komazawa Daigaku, vincitore per tre volte del campionato mondiale di kumite], non aveva alcun controllo, mentre io cercavo di controllare; vista la sua insistenza a colpirmi, mi sono stancato e ho iniziato a comportarmi alla sua stessa maniera. Il risultato è stato che a ogni colpo che portavo veniva sbalzato via e attraversava tutta la sala sotto i miei colpi. Mi guardai in giro e vidi che tutti si erano fermati a osservarci, il M° Kase, il M° Shirai e gli altri tutti attorno. Venne il M° Nakayama [Nakayama Masatoshi (1913-1987) maestro in capo della J.K.A.] e ci fermò, poi si mise a parlare con me in giapponese, ma io non lo capivo, sapevo solo che, fino a che l’altro si fosse comportato così, io avrei risposto sullo stesso piano e questo si è ripetuto per due o tre volte. Fino a quando, su un mio attacco di pugno, lui mi prese il braccio e tentò di metterlo in leva inforbiciandomi il corpo tra le sue gambe per farmi cadere a terra. Solo che io rimasi in piedi e mi sentii in grado di proiettarlo a mia volta fin dentro l’ufficio a vetri della JKA, ma prima di farlo guardai il M° Shirai che mi fece segno con le mani di chiudere lì. A quel punto mi rilassai e questo giapponese, mentre mi trovavo in ginocchio e avevo la sua gamba nell’incavo del mio ginocchio, forzò la leva al braccio costringendomi a scendere indietro. Il mio ginocchio, per effetto della sua gamba tra la mia coscia e il polpaccio, si è aperto e strappato completamente e lì mi sono giocato anche il campionato mondiale. Mentre aspettavo il medico, perché non potevo muovermi, arrivò un giapponese con la mandibola completamente fratturata e spostata a destra a causa di un mawashi geri portatogli da Ochi [Ochi Hideo, maestro di karate responsabile per la J.K.A. in Germania e capo istruttore europeo per la stessa Associazione], che voleva dimostrargli in modo molto diretto che gli anni in Europa non lo avevano arrugginito come il suo contendente, malauguratamente per lui, sprovvedutamente aveva supposto.
Quale ritieni debba essere una qualità/potenzialità imprescindibile nel kumite?
Sai, molte volte c’è paura quando devi combattere, la cosa strana è che quando io dovevo combattere non vedevo l’ora, proprio non vedevo l’ora di confrontarmi con altri per testare me stesso. Lì, se uno è timido, si lascia sopraffare da questa timidezza. Allora mettiamola così: è un’arte giapponese? uno deve assumere una decisione? se non riesce a decidere si fa seppuku? cosa ci rimette? tu vai per fare una gara? quello che ti può succedere è solo di morire, quindi, perché devi avere paura? Vai! La paura veniva totalmente messa da parte, non esisteva, in quanto c’era solo la gara, il confronto vero e totale con l’altro.
Cosa pensi del “karate-sport” dilagante oggi?
Non voglio fare commenti, perché il karate non è uno sport. Adesso, appena uno tocca l’avversario viene squalificato, appena uno esce dal tatami di gara viene semplicemente richiamato, mentre non si deve indietreggiare mai. Il karate non è nato come sport e non può essere ridotto semplicemente a questo piano.
Ritieni che il mondo del karate tradizionale debba spingere la sua ricerca della Via più in profondità rispetto a quanto la tradizione stessa propone e stabilisce attualmente?
Age uke è sempre age uke, soto ude uke è sempre soto ude uke, mae geri è sempre mae geri, però, rendiamoci conto che comunque sia il karate non è fatto per arrivare ai cento anni. Il karate era che al mattino sei vivo e la sera sei morto [sottointendendo il famoso detto “nascere contento al mattino, morire contento alla sera”, nel senso di dare sempre il proprio massimo in ogni attività]. Perciò, ti può andare bene una volta, due, cinquanta volte, però… e c’è a chi va bene sempre. Però tu dovevi fare quello che serviva per sopravvivere e per fare il lavoro per il quale eri stato chiamato. Questo per me era il karate, quindi, il fatto di approfondirlo è perché non si muore più di karate e allora uno fa age uke piano, poi impara la forma più forte, poi più contratto, poi… , ma poi? Ma poi?… È sempre age uke. Così tu fai age uke e poi non riesci a spostare il pugno che arriva e ti uccide. Ecco, tu hai fatto karate fino a lì, quindi, non lo hai portato fino ad avere quella qualità assoluta che ti preserva. È ovvio che dopo trent’anni che uno fa karate non ha più cose particolari da imparare fisicamente, ma non ci si deve fermare all’aspetto fisico, non ci si deve fermare all’aspetto psichico, si deve approfondire l’aspetto spirituale e non è detto che si riesca ad arrivarci. Tuttavia, si deve tendere all’aspetto massimo che è quello spirituale; age uke è sempre age uke e un pugno è sempre un pugno, ciò che si deve cambiare è interiore.
Lo yoga, che insegni da circa 40 anni, ti ha aperto a un diverso approccio con il mondo?
Sicuro! Perché ho fatto yoga? L’ho già detto: perché il corpo era talmente duro e forte che per avere la meglio sull’azione dell’avversario, dovevo prima vincere la mia stessa forza, i miei muscoli troppo contratti non mi permettevano la velocità, il corpo troppo rigido non mi permetteva gli spostamenti e da lì ho capito che c’era uno squilibrio che andava ricomposto, tanto yin e tanto yang. Anche nello yoga ci sono l’aspetto fisico, psichico e spirituale, perciò, il percorso non era certamente diverso da quello del karate. Così come per la montagna: uno vuole conquistarla, ma serve solo per conquistare se stessi. Quindi, per me lo yoga è stato molto importante per perfezionare il karate, così come il karate lo è stato per lo yoga. Io faccio uno yoga molto diverso da quelli che sono i canoni standard.
Age uke è sempre age uke e un pugno è sempre un pugno, ciò che si deve cambiare è interiore.
Di che cosa ti occupi attualmente? Qual è l’ambito del tuo studio e approfondimento attuali?
La cosa più importante per me inizia a essere l’aspetto spirituale, io vorrei avere un’evoluzione a livello spirituale. Però questo non significa volere ritirarsi in un monastero. Per alcuni è importante ritirarsi per raggiungere l’opportuna concentrazione, ma io ho una famiglia di sette figli con dei nipoti, per cui devo trovare la mia dimensione spirituale in questo contesto. Io credo molto nella reincarnazione, quindi, quello che non è raggiunto ora, lo sarà in tantissime altre vite. Però, è importante fare il primo passo verso la dimensione spirituale e poi essere liberi nel proprio pensare, fare karate, fare yoga, fare la montagna, spaccare la legna ed essere consapevoli di quello che si fa. Allora, la mia vita è fondata sulla capacità di essere sempre più consapevole e avere sempre di più il controllo della mente, anche se sono molto lontano da questo.
C’è qualcosa che ti senti di dire liberamente ai neofiti del karate tradizionale?
Il karate non deve avere delle regole. È come quando vai sulla montagna: se cadi giù muori, se arriva un fulmine muori, sei consapevole di questo e accetti il rischio. Il karate è uguale, quando nel karate ci sono troppo regole… È giusto che non si debbano fare determinate cose, però il karate è il karate, altrimenti non è più karate, è un giocare a bocce, diventa un’altra cosa.
Hai un ricordo personale del M° Kase? Del M° Nakayama? Dei Maestri che hai incontrato?
Sì, io ero l’aiuto del M° Kase, ero sempre vicino a lui e avevo il compito di non fargli mancare nulla. Io ero sempre lì a servirlo per il mio piacere, poi certamente anche per il piacere del M° Kase, e così anche con il M° Shirai. Tutto quello che io posso avere fatto per aiutare il M° Shirai o il M° Kase, l’ho fatto unicamente perché era una mia gioia potere stare vicino a queste persone. Mi ritengo particolarmente fortunato ad avere incontrato Maestri come Kase, Shirai, Enoeda, Nishiyama, Nakayama, ma anche molto fortunato ad avere dei compagni, soprattutto come Beppe Perlati e Nando Balzarro. Io devo loro molto per avere rafforzato il mio karate che, a sua volta, ha rafforzato il loro. E la cosa molto bella era che ognuno era diverso dall’altro. La forza è stata anche nelle nostre diversità, che ha espresso una poliformità di realizzazioni in seno al karate molto originali.
Erano bei tempi e ci si metteva in gioco totalmente, oggi purtroppo molti valori sono caduti e la gente non vuol più sacrificare quella che ritiene essere la sua libertà, perché non vede l’“altra parte” (della vita). Però lì ci si deve arrivare per dare senso al proprio essere. È come se tu ti trovassi davanti a un fiume: se non sleghi la barca e remi, ti troverai sempre su quella riva lì, sudi e sudi per ristagnare sempre lì. Taglia la corda e accetta il fiume con la sua corrente e vai! Così potrai capire se hai fatto bene o se hai fatto male. Ma non si fa mai male…