L’ autodifesa femminile va oltre l’apprendimento di tecniche di antiaggressione implica positività interiore, valore di sé, sicurezza nel diritto di auto-etero-protezione, fiducia nel sapersi difendere.
(In KarateDo n. 22 apr-mag-giu 2011)
Ormai da diversi anni nel dojo dello Shotokenshukai Karate di Pianengo (CR), che mi conosce come un’umile praticante, vengono organizzati dal M° Gabriele Stellato, c.n. 3° dan FIKTA e praticante di Goshin-do, dei corsi di Auto-Difesa Femminile, livello base e avanzato. Ogni anno questi corsi vedono la partecipazione di un nutrito gruppo di ragazze e donne, e dove intervengono anche un medico e una psicologa, in modo attivo (!), ossia come “alunni”, ma anche condividendo conoscenze tratte dal proprio bagaglio professionale.
Questo articolo vuole essere solo il primo di altri che seguiranno, in cui verranno approfonditi vari temi che ora accenno soltanto, in una sorta di panoramica che possa rendere l’idea di quanto ricca, sfaccettata e complessa sia la tematica dell’Auto-Difesa Femminile da un punto di vista “psico”, peraltro pochissimo adottato in letteratura.
Frequentare un corso di ADF è come stipulare un’assicurazione non obbligatoria, come quella sull’automobile, ma che almeno una volta nella vita può risultare più necessaria di questa.
Frequentare un corso di ADF è come stipulare un’assicurazione non obbligatoria, come quella sull’automobile, ma che almeno una volta nella vita può risultare più necessaria di questa, data la disarmante attualità del tema della violenza contro le donne, di cui i mass media forniscono ampie notizie. Questa rubrica intende sposare in pieno l’ottica femminile e il peculiare e multiforme punto di vista muliebre, ma senza dimenticare che ai corsi di antiaggressione partecipa anche qualche ragazzo, proveniente o meno dal mondo delle arti marziali, poiché la sensazione di pericolo che ci attornia è spesso trans-gender (ossia travalica il genere maschile o femminile).
La percezione del rischio per la propria incolumità può essere preventiva (il pensiero che sorregge la stipula di un’assicurazione, ma anche un’azione in un’ottica di cura di se stessa a 360°, non solo del tumore al seno o all’utero) oppure non preventiva (è già successo qualcosa di male a me o a qualcuno vicino a me).
Non ci deve trarre in inganno l’emancipazione femminile e la parità di diritti, almeno nei paesi industrializzati, poiché l’atteggiamento (ciò in cui effettivamente si crede) e il comportamento (come si agisce) spesso possono essere molto differenti, così come Obama è stato eletto Presidente, ma negli USA permane il razzismo.
Non intendo in alcun modo scadere in un femminismo stucchevole e datato, tuttavia merita menzione uno dei valori che permeano la nostra cultura: il fattore sociale ed educativo – se non proprio della nostra generazione, almeno ereditato per osmosi e comunicazione non verbale da nonne e madri – per cui la bambina/ragazza debba essere buona, sorridente e remissiva; per lei è d’obbligo reprimere la rabbia per compiacere l’Altro significativo, il potenziale partner. Fatte salve le autobiografie individuali, la donna introietta l’aggressività e talvolta la tramuta in depressione o disturbi alimentari, mentre l’uomo più facilmente la estromette con la violenza. Non a caso, sono molto più frequenti i casi di uomini che uccidono una partner, attuale o ex, piuttosto che viceversa.
Qualche volta le persone, ma in modo particolare le donne, portano in sé un atavico senso di colpa, inconscio e irrazionale, ma non per questo meno efficace, che lascia il retrogusto per cui “meritarsi che succeda qualcosa di male” e per cui riuscire anche a mentire per difendere un partner violento: “Ho sbattuto contro la porta”, come in una vecchia campagna appoggiata da Amnesty International.
L’approccio psicodinamico ci viene in aiuto: a causa del meccanismo di difesa, noto come colpevolizzazione della vittima, capita di sentir dire: “È stato un andarsela a cercare: in minigonna, a ballare, di notte…” a cui fa da contraltare l’auto-rassicurazione: “A me invece non capiterà mai di essere vittima di uno stupro, perché non esco di sera e indosso solo pantaloni”. Peccato che le auto-rassicurazioni reggano poco, a fronte delle mille sfaccettature di pericolo che la realtà ci pone davanti.
L’Auto-Difesa femminile non insegna a essere superwoman o soldato Jane; non significa rinunciare a parte della propria femminilità, né competere con gli uomini per dimostrare una presunta superiorità compensativa. Significa essere DONNE e saper esprimere quella “resistenza al ruolo di vittima” che talvolta è già una strategia efficace.
In palestra, frequentando un corso di karate o di Auto-Difesa, le principianti sperimentano, giustamente, la paura di far male al compagno di corso con cui si stanno allenando, ma fuori, importunate per strada o in un locale, sarà decisivo portare un’intenzione risolutiva al momento giusto.
L’Auto-Difesa diventa un costrutto cognitivo, che permette di trasformare la paura in energia positiva, che si esprime in un assetto mentale (mindset) di determinazione e di autocontrollo.
La paura è descritta in letteratura come un’emozione innata, che ha delle basi neurologiche ben precise, localizzate in strutture del cervello molto antiche, come l’amigdala, l’ippocampo e l’ipotalamo, comuni anche agli animali, che rendono possibile la reazione di attacco/fuga. Solo per gli esseri umani invece è possibile, con lo sviluppo della materia grigia, descrivere le emozioni provate.
Semplificando molto e rifacendomi al paradigma comportamentista, la dinamica:
Stimolo > Risposta diventa in alcuni contesti >
Aggressione > Fuga oppure Aggressione > Difesa.
Nel mondo animale, dove i ruoli di cacciatore e di preda sono molto ben definiti, è pressoché sconosciuto quel fenomeno penoso che invece può interessare gli esseri umani, ossia il restare paralizzati, quasi ipnotizzati o inebetiti, dalla paura o dalla sorpresa, e non saper reagire efficacemente all’evento dannoso. Questa paralisi è fonte di rabbia auto-riferita quando la vittima, magari affetta da Disturbo Post Traumatico da Stress, racconta l’evento subìto (se riesce a raccontarlo…).
L’ottica dell’Auto-Difesa a 360° va ben oltre l’apprendimento e l’esercizio di varie tecniche di antiaggressione in palestra; implica ad esempio un atteggiamento mentale di positività interiore, che comprende la coscienza del valore di sé, la sicurezza del diritto di auto-etero-protezione, la fiducia nelle proprie risorse per essere in grado di difendersi.
Imparare ad auto-difendersi, in palestra e fuori, implica delle graduali ma significative conseguenze, che argomenterò prossimamente:
- una maggiore autostima (sapere di essere);
- una maggiore autoefficacia percepita (sapere di saper fare);
- un’assertività a 360°.
L’Auto-Difesa diventa un costrutto cognitivo, che permette di trasformare la paura in energia positiva, che si esprime in un assetto mentale (mindset) di determinazione e di autocontrollo.