La pratica della meditazione, le sue origini e la tradizione.
(in KarateDo n. 20 ott-nov-dic 2010)
Il termine mokusō, pronunciato tradizionalmente a ogni sessione di pratica sia all’inizio sia alla fine, ha un’origine molto antica e ci riconduce agli albori del karatedō. Mokusō significa “meditazione” ed è speculare a quanto nella tradizione Zen è definito zazen – meditazione seduti.
(Per la tradizione Sōtō, avviene assumendo la posizione seduti sopra un cuscino zafu, a gambe incrociate – kekkafuza, o semi-incrociate – hankafuza. La postura è assolutamente immobile, ma senza contratture e rigidità).
Vedremo alcuni punti fondanti lo zazen secondo l’insegnamento di Dōgen zenji (1200-1253), fondatore della tradizione Zen Sōtō in Giappone.
L’agiografia afferma che l’Illuminazione di Dōgen fu sancita con queste parole di fronte al suo maestro: “shinjin datsuraku” ossia “corpo e mente abbandonati”. L’antecedenza che il corpo assume rispetto alla mente nell’enunciato indica che trascendere il corpo, quindi, “abbandonarlo” sia il veicolo che permette di arrivare alla mente e conoscerla nella sua originale e naturale potenzialità. Durante lo zazen, nell’omeostasi che si produce, il corpo non è più vissuto come relato alla mente che lo pensa dualisticamente come corpo, ma avviene l’integrazione dei “due”.
Il portato di questo processo è enorme, infatti, il corpo che noi oggettiviamo e il corpo che noi viviamo sono naturalmente integrati, tuttavia, questo grado di integrazione, per una infinità di cause e condizioni attinenti alla propria retribuzione karmica, non è la più inclusiva possibile.
Nel processo dello zazen (Lo zazen va definito quale “processo” e non come “stato d’essere”, poiché la condizione in cui vive è l’impermanenza – mujō, vera ontologia buddhista. Lo zazen opera in quel tempo che Abe Masao definisce trans presente) l’ordinaria coscienza quotidiana, poggiante sulla discriminazione dualista che ci confina e circoscrive al nostro orizzonte concettuale, cambia e si trasforma in consapevolezza a-duale determinando un riorientamento epistemologico. Vale a dire che l’essere, con l’estinzione della dominante discriminatoria duale, partecipa del mondo in unità con esso realizzando la propria natura originale, sancita dai passaggi contraddistinti dai piani antropocentrico, deantropocentrico e, quindi, cosmologico.
Nel processo dello zazen, l’ordinaria coscienza quotidiana, poggiante sulla discriminazione dualista che ci confina e circoscrive al nostro orizzonte concettuale, cambia e si trasforma in consapevolezza a-duale determinando un riorientamento epistemologico.
Un aspetto importante nell’esperienza meditativa consiste nella “visione” delle attività dei processi inconsci, che vengono a integrarsi naturalmente nella coscienza e qui automaticamente elaborati senza alcun intervento da parte nostra, se non quello del mantenimento costante e concentrato della corretta postura. Questo equivale a lasciare il sé risolvere se stesso da se stesso, automaticamente e naturalmente, fattore che ci permette di affermare che lo zazen non è una tecnica finalizzata alla produzione dell’illuminazione, ma l’illuminazione stessa.
L’aspirante zen, nel corso della sua esperienza, può realizzare l’unità di corpo-mente (shinjin ichinyo) verificandone la sostanzialità sia empirica sia teoretica. Vale a dire che la libera e naturale attività interiore del corpo, immobile nella postura di zazen, può prodursi nella sua originalità e verità in quanto non più sollecitata o occultata dalla realtà ordinaria. Nell’immobilità dello zazen, l’energia intelligente che ci anima ha modo di poter vivere se stessa e operare per consentire a quanto possa costituire impedimento, situato prevalentemente nell’ambito inconscio, di fiorire alla superficie della coscienza e dissolversi, lasciando apparire l’identità originale dell’essere. È l’immobilità che stabilisce la prospettiva noetica dalla quale il meditante “osserva”, fondata nello stato in cui nulla appare dal profondo dell’essere, resta quindi solo l’essere in quanto tale nella sua autopoiesi.
Dōgen afferma, nel fascicolo Zazengi. Il metodo formale dello zazen, quale debba essere il piano per una pratica corretta:
Lasciate andare qualunque tipo di legame e mettete da parte ogni cosa. Il bene sia un non-pensiero e il male sia [anche] un non-pensiero. [Fare zazen] non riguarda né la mente, né la volontà, né la coscienza. E neppure riguarda il pensiero, le idee, la percezione. Non pensate di voler diventare dei Buddha. Abbandonate la normale attività quotidiana. Siate parchi nel cibo e bevande, non sprecate il vostro tempo. Tenete in alta considerazione lo zazen come se voleste spegnere un incendio sulla vostra testa.
(Aldo Tollini, Pratica e Illuminazione nello Shōbōgenzō, Roma, Astrolabio-Ubaldini Editore, 2001, pp.43-44).
È evidente l’invito-induzione a lasciare andare ogni pensiero per affondare esclusivamente nell’ambito interiore. Attraverso l’esercizio continuo della postura i pensieri vaganti si esauriscono e la mente, svuotata e liberata, può sperimentare lo stato di samādhi, nel quale non persiste più la coscienza di un “io” in quanto la sua artificialità è estinta, dissolta; lo zazen inizia da qui.
Il Maestro Taiten Guareschi enuncia in alcuni punti precisi cosa sia importante durante lo zazen, accompagnati dalla premessa che invita a non ritenerli “ricette” che conducano alla realizzazione di un’inesistente condizione speciale. Essi sono così formulati e da me riassunti:
- Non trattenete e non respingete nulla
- Lasciate passare i pensieri
- Non pensate al passato né al futuro
- Non elaborate qualcosa nel presente
- Non evitate di pensare
- Non giudicate
- Non intervenite
- Non aspettate nulla
- Pensate attraverso la postura
Hishiryō è il pensiero dello zazen
(Hishiryō, nonpensiero, pensiero dal profondo del non pensiero, pensiero cosmico, assoluto, pensiero ipotalamico. Integrazione di shiryō, ‘pensiero’, e fushiryō, ‘non-pensiero’). Associazione Italiana Zen Sōtō, a cura di, Guida allo Zen, Milano, Giovanni de Vecchi Editore, 1991, pp. 73-75.
Nell’economia della postura di zazen il respiro è centrale (in realtà non c’è nulla che non sia centrale), in quanto ha la proprietà di recettore e veicolo vitale capace di integrare il piano psichico e fisico. Per Dōgen il respiro non è né lungo né corto e raccomanda di non intenderlo quale attività yogica tipo prānāyāma, poiché è importante essere sì consapevoli del respiro, ma senza “toccarlo”, in quanto non dev’essere originato nel cogito, nell’ego.
Il maestro Deshimaru Taisen (1914-1982), afferma: Nello Zen, nell’autentico buddhismo, si controlla lo spirito attraverso il corpo: controllare lo spirito attraverso lo spirito diventa complicato, voler dominare la propria mente con la volontà è come voler spegnere il fuoco con il fuoco, lo si attizza ancora di più e ciò è pericoloso. Attraverso la respirazione, invece, è molto facile controllarsi: se vi sentite in collera, gelosi, appassionati, respirate lungamente, lentamente, esattamente nello hara, sotto l’ombelico, e vi calmerete. (Deshimaru Taisen, a cura di, Anapanasati-Sutra, parte prima, trad. Zendō Fidenza, Fidenza, 1980, p.5).
È l’immobilità che stabilisce la prospettiva noetica dalla quale il meditante “osserva”, fondata nello stato in cui nulla appare dal profondo dell’essere, resta quindi solo l’essere in quanto tale nella sua autopoiesi.
Ordinariamente, la respirazione avviene inconsciamente, tuttavia, durante lo zazen si apprende a condurre questo gesto inconscio in ambito di controllo cosciente “senza toccare l’oggetto”, vale a dire senza intenzionalità egodiretta, in quanto è solo la naturale dinamica interiore del corpo-mente ad attivare se stessa da se stessa. L’osservazione della respirazione, da posizione immobile e stabile, permette che una funzione inconscia come quella respiratoria possa essere conosciuta nelle sue potenzialità e relative interdipendenze. Quindi, una piena consapevolezza del respiro costituisce un ponte tra la mente e le funzioni inconsce. Il respiro, per le implicazioni dinamiche intrinseche al suo stesso svolgimento, ha l’effetto di esaurire, o per contro può contribuire a produrre, la poliformità di emozioni e istinti ristagnanti nel sé. Esso, in sinergia con la postura, è un fattore fondamentale per fare emergere le energie latenti e liberare il sé dagli effetti limitativi, inibitori e occlusivi prodotti dalla loro azione e dipendenza.
Riassumendo, nel fascicolo Bendōwa – Discorso sul perseguire la via – Dōgen descrive lo zazen come jijuyū zanmai (samādhi della piena autorealizzazione) e designa uno stato di assorbimento o concentrazione del sé quando si realizza nella piena comprensione, quindi accettazione, della sua funzione nel mondo, quale mondo. Questo jijuyū zanmai precede linguaggio, discriminazione, mente illusoria ed è connotato dalla simultaneità di pratica-illuminazione, corrispondente a niente altro che kekkafuza (sedersi nel loto). Kekkafuza è il retto corpo, la retta mente, il retto corpo e mente, i buddha e patriarchi stessi, pratica-illuminazione stessa, l’essenza del buddhadharma e il sangue vitale di Buddha stesso. (Okumura Shohaku and Daitsū Tom Wright, trans. by, Dōgen Zen, Kyōto, Kyōto Sōtō Zen Center, 1988, p. 93).
Il grande maestro Sawaki Kōdō (1880-1965) diceva: “Zazen è il Buddha cui diamo forma con la nostra carne viva” e, ancora, “Praticare lo shikantaza (semplicemente sedere, sedere con tutto se stessi NdA) significa usare questa carne viva di un normale essere umano per il suo scopo più elevato”. (Sawaki Kōdō, “Raccolta di citazioni”, in: http://www.antaiji.dogen.de/eng-kike/it-kike10.html)
Perciò, il mokusō che apre e chiude la nostra pratica è un aspetto fondante per la comprensione profonda di noi stessi e, quindi, del mondo.