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Una proposta per diverse modalità di insegnamento del Karate (parte 3)

Una proposta per diverse modalità di insegnamento del Karate (parte 3)

I piccoli atleti e i loro genitori, le gare e il rapporto col maestro… Poi però crescono e diventano degli adolescenti con una propria identità in evoluzione.

(in KarateDo n. 20 ott-nov-dic 2010)

GENITORI
Prima che il bambino abbia compiuto, indicativamente, 6 anni, non esiste un disturbo di tipo psicopatologico a suo carico che sia indipendente dalla qualità della relazione con la madre o, comunque, con il caregiver principale. Qualche volta dagli insegnanti di scuola elementare si sente dire: «Il problema non sono i bambini, che fanno il loro lavoro di comportarsi secondo l’età, ma i genitori… ».
Insegnare a dei bambini vuol dire aver a che fare necessariamente anche con i lori padri e le loro madri, ma ci sono quelli che, anche nel Karate, sarebbe bene poter evitare, per le dinamiche fastidiose o “malate”, e le attribuzioni di colpa che il maestro rischia: il padre che spinge il figlio al successo a tutti i costi, per una replica di ciò che egli è stato in passato, magari in altri sport, o per proiezione di ciò che egli non è mai riuscito ad essere; la mamma iperprotettiva che si preoccupa ancora per i piedini scalzi e resta incollata sulle tribune per tutto il tempo della lezione, osservatrice molto attenta e più spietata di una moviola, oppure quella che vuol fare il personal trainer. Se partecipare alla vita dei figli, anche a quella ludica e sportiva, è assolutamente importante, sarebbe buon senso evitare i due estremi dell’indifferenza da un lato e del trasformarsi in un ultrà dall’altro.
Il rapporto genitore – insegnante dovrebbe essere di alleanza e di progetto educativo condiviso, le cui declinazioni possono anche essere molto modeste: se l’istruttore insegna a un bimbo alle prime armi ad allacciarsi la cintura bianca, magari ponendosi al suo fianco, anziché sostituirsi al piccolo, la prossima volta il bimbo farà da sé. Peccato che a volte il messaggio arrivi scisso e contrastante: la mamma mi allaccia la cintura (bianca? gialla?… nera?!), mentre con il Maestro devo fare da me.

Se vincere è ovvio e doveroso, non vincere diventa il problema.

In gara – A una gara partecipano tanti bambini e uno solo arriva primo, ma è il più bravo di quell’occasione. Quello che è veramente importante, fin da piccoli, dalle prime gare e dalle cinture di basso livello, è analizzare con se stessi e con il Maestro la prestazione personale:

  • c’era il giusto spirito?
  • la giusta dose di combattività?
  • le tecniche si possono migliorare ancora?

Il sunto dirà se l’atleta può sentirsi appagato dalla prestazione o che cosa c’era di sbagliato, non per farsene una colpa, ma per impegnarsi a migliorare nei prossimi allenamenti in palestra.
Oltre ai dilettanti delle gare ci sono i ragazzini ”macchine da guerra”, i piccoli campioni per cui è ovvio vincere una gara a cui partecipano, anzi, quelli che ormai si godono poco le vittorie; quelli per cui una gara in più è un’altra tacca sul fucile, un’altra medaglia in cameretta, un tutto dovuto. Se vincere è ovvio e doveroso, non vincere diventa il problema. A volte dimentichiamo che la competizione fa naturalmente parte della socializzazione, in quanto struttura progressivamente il rispetto di regole condivise e contribuisce a sviluppare un codice etico. Per un bambino la competizione è, infine, un gioco in cui esprimere il bisogno di affermazione di sé.
Con il Karate i giovani praticanti hanno la possibilità di conoscere le proprie potenzialità, svilupparle, accrescere la stima in se stessi e sperimentare il significato educativo del conflitto. A tutto questo contribuisce in modo efficace una gara, purché affrontata in modo sano: con l’obiettivo di verificare le abilità acquisite e superare i propri limiti, con sportività, rispetto dell’avversario e lealtà, giusta importanza attribuita all’evento. La difficoltà, per l’adulto, sarà dare il buon esempio nell’insegnare e nel vivere questa filosofia, affinché la competizione non degeneri in rivalità e desiderio di sopraffare l’altro.

ADOLESCENTI
Secondo un docente universitario, padre di due ragazzini, adolescenza è anche “adolescemenza”… L’età d’ingresso in questa fase si sta abbassando sia per il precoce sviluppo fisico, nei maschi e soprattutto nelle femmine, sia per fattori culturali che tendono ad adultizzare il bambino (consumatore, fruitore di servizi) nonostante le istanze familiari, fagocitanti e contrarie all’espulsività. Scientifico è che nell’adolescenza si colloca l’ultima fase stadiale dello sviluppo intellettivo piagetiano: il pensiero ipotetico deduttivo o pensiero formale.

Già dagli 11-12 anni (comunque non oltre i 14-15) il soggetto comincia ad acquisire la capacità di ragionare in termini di ipotesi astratte puramente verbali, di formulare diverse alternative possibili e di dedurre le conseguenze implicite nelle ipotesi stesse.
In questa fase di vita i rapporti con i coetanei, dello stesso genere e dell’altro, assumono una grandissima importanza, che si esplicita nei bisogni di affiliazione e di appartenenza a un gruppo o a diversi gruppi. Durante l’adolescenza viene soprattutto acquisita un’identità stabile e autonoma. Tuttavia, oltre a infiniti percorsi ed elaborazioni di eventi, secondo Marcia (1966) esistono 4 STATI IDENTITARI, che corrispondono a differenti modalità di rapportarsi agli eventi.

  1. Nello stato dell’identità acquisita si trovano coloro che hanno operato delle scelte dopo aver sondato, attraverso la sperimentazione, diverse alternative possibili.
  2. Lo stato di moratorium definisce quella fase in cui la sperimentazione, la ricerca di sé e la riflessione continua sulle diverse alternative sono ancora in corso.
  3. Lo stato definito blocco dell’identità è caratteristico di quegli adolescenti che sono arrivati ad elaborare delle scelte in vari ambiti della loro vita e ad assumersi gli impegni conseguenti evitando di esplorare le diverse soluzioni possibili, con un’adesione acritica ai primi modelli identificatori (ovviamente, i genitori).
  4. Un quarto stato, di diffusione dell’identità, è proprio di coloro che mettono in atto molteplici comportamenti esplorativi superficiali, senza riflessione e senza un fine relativo ad una scelta e ad un impegno futuro.

Se parliamo di personalità equilibrata, tuttavia, teniamo presente che siamo in Italia e non in Giappone. Senza mai prescindere dalla marzialità, come impostazione e come linguaggio, e senza scadere in un lassismo che è disastroso, manteniamo il distacco da alcune istanze che sono tipiche della cultura sociale nipponica: il dovere di eccellere con risultati massimi, a tutti i costi, in ogni prestazione, la perdita di valore personale se non supportato dall’essere primo e dall’aver surclassato gli altri, l’efficienza, l’arrivismo, l’imperativo e la pretesa del successo. Alle spalle una madre – reale e interiorizzata come istanza superegoica – ossessiva, esigente, mai abbastanza soddisfatta. L’esito negli adolescenti nipponici è spesso il suicidio o quel nuovo fenomeno chiamato hikikomori: letteralmente “rannicchiarsi in se stessi”, in concreto: rinchiudersi nella propria stanza e non uscirne anche per anni.

… quel nuovo fenomeno chiamato hikikomori: letteralmente “rannicchiarsi in se stessi”.

Motivazioni
Nell’adolescente che si avvicina alla pratica/disciplina del Karate, le motivazioni sono generalmente molto diverse da quelle di un bambino. La spinta dei genitori non ha alcuna influenza, anzi, a volte la scelta di uno “sport violento” (nel pregiudizio di chi non lo conosce) è una forma di ribellione e di affermazione della propria nuova, confusa identità, con tutte le pulsioni esplosive del caso. Magari, iscriversi in una palestra in cui si praticano arti marziali è conseguenza dell’iscrizione del migliore amico, magari (ma è una scelta più matura, di una personalità già più evoluta) questa scelta è proprio un’affermazione di sé contro il pullulare del calcio fra gli amici.
A livello empirico possiamo affermare che un adolescente che scopre questa passione senza influenze, può continuare a praticare “per tutta la vita”. Se l’attività è iniziata da bambino, è frequente per l’adolescente stancarsi e rifiutare il Karate, come ripudia molti aspetti della propria passata fase di vita, in cui non intende più identificarsi. Il Karate rientra nelle “cose da bambini”; ora egli è mosso da altri interessi: il motorino, la prima fidanzatina, le uscite con gli amici, magari più adulti. Alzarsi presto la domenica mattina, per l’allenamento straordinario in vista di una gara, è fattibile solo se la motivazione permane forte ed intrinseca, altrimenti l’impegno supplementare richiesto è l’ultimo tassello nel quadro dell’essere “stufo” e una possibile scusa per lasciare la palestra.

Infinite variabili intervenienti, nel corso degli anni e dello stile di vita, rendono impossibile profetizzare se un soggetto che inizia la pratica con la cintura bianca arriverà a conseguire la gialla, tutte le successive fino ai Dan. Ogni Maestro ricorda di essere incorso, almeno una volta, in una grossa delusione per aver riposto molte aspettative su un giovane atleta che ha poi scelto di abbandonare il Karate.
In adolescenza agisce fortemente il duplice aspetto del raggiungimento della cintura nera (per chi ha iniziato da piccolo), spesso vista come un traguardo, un punto di arrivo, non come un punto di partenza per iniziare a “fare sul serio”. Oppure nel momento in cui il Maestro chiede un maggiore impiego di dedizione, di tempo, di kime, viene la conclusione di una promettente carriera, con la cintura marrone. Viceversa “la nera” – essersi impegnato per raggiungerla e averla conseguita – può essere un potente veicolo di nuovi stimoli e nuovo entusiasmo.

Una motivazione personale all’intrapresa del Karate può essere un rapporto conflittuale col proprio corpo, fattore molto comune in adolescenza e, al contrario di quanto è facile pensare, non soltanto nelle ragazze. Vedersi troppo magro oppure obeso, desiderare un fisico asciutto e muscoloso, temere di essere aggredito da ragazzi più grandi o aver subito atti di bullismo, possono essere fattori che introducono al dojo. Dal punto di vista fisico, l’adolescente ha energie sufficienti per affrontare allenamenti prolungati e con progressi notevoli. In questa fase, molto più che nella precedente, emergono le eventuali attitudini psicofisiche atletiche. Fra adolescenti il decalage non è molto influenzato dall’età anagrafica, ma dalla maturità personale acquisita, con cui ogni impegno viene affrontato, nonché dalle risorse che ognuno si sente di mettere in campo, nei termini di autodisciplina e concentrazione.
Anche per gli adolescenti vale il discorso di cui sopra rispetto alla resilienza e al Karate come fattore di protezione, durante una fase di vita che è conflittuale per definizione, ma anche quando in famiglia il ragazzo vive gli estremi dell’autoritarismo e del lassismo. Difficilmente l’insegnante di Karate subisce la stessa contestazione cui sono sottoposti i genitori, anzi, qualche volta egli viene preso a modello per gli obiettivi dell’adultità futura. Sicuramente la buona relazione con il Maestro favorisce la transazione dalla famiglia alla società, in termini di evoluzionismo intrapsichico (Grimaldi). L’autocoscienza della propria resilience – essere riuscito a uscire sano, con le proprie forze e con l’aiuto di un altro significativo, da un conflitto o da un disagio -, rafforza l’autostima e la fiducia nella resilienza stessa.

Sicuramente la buona relazione con il Maestro favorisce la transazione dalla famiglia alla società.

Adolescenti e violenza
Sempre più spesso la nostra società ha a che fare con adolescenti violenti, difficili, disagiati. Al di là di quali siano cause e rimedi di questi problemi, Twemlow e Sacco (1998) in Kansas hanno ipotizzato che l’insegnamento e l’applicazione della pratica e della teoria delle arti marziali tradizionali sia un’efficace, nuova e alternativa proposta per il trattamento degli adolescenti violenti. Nel programma, oltre all’autocontrollo e al rispetto, erano enfatizzati gli aspetti relativi alla nonviolenza e alle strategie di coping rispetto alle situazioni familiari ed amicali, spesso disfunzionali e multiproblematiche. Esempi clinici parlano di applicazioni durante trattamenti residenziali e per intere classi di scuole pubbliche.
Secondo la ricerca condotta in Pennsylvania da Zivin et al. (2001), un programma di arti marziali tradizionali fa parte dell’approccio efficace alla prevenzione della violenza negli istituti scolastici superiori, in un campione di 60 ragazzi ad alto rischio di devianza e delinquenza. Il corso, proposto dalla scuola stessa, ha permesso di identificare cambiamenti significativi fra il gruppo sperimentale e quello di controllo, sia nell’osservazione oggettiva, sul comportamento, che nel self-report, su alcune variabili di benessere psicologico.
Il Karate è l’alternativa che consente attività con i pari, esempi e modelli di ruoli adulti, incremento dell’autostima (riuscire a realizzare tecniche sempre più complesse, cambiare la cintura, vincere una medaglia in gara). Offre princìpi in cui credere, quali la non aggressione e il rispetto per l’altro; in un’età in cui lo scoraggiamento e la frustrazione sono particolarmente facili, insegna ad affrontare le difficoltà – e la vita – con entusiasmo e tenacia (M° Varone).

Rispetto all’aggressività e alla competitività, in adolescenza esse marcano il distacco dalle figure di dipendenza infantile. A proposito del cosiddetto bullismo, fenomeno in crescita fra i nostri giovani, esso si caratterizza per essere una manifestazione distruttiva e senza regole, laddove il Karate è invece uno strumento per imparare a esprimere le proprie potenzialità in modo equilibrato, sano e rispettoso dell’altro; il Karate insegna regole, responsabilità, correttezza e lealtà.
Nel microcosmo della vita quotidiana e nel macrocosmo sociale si inneggia alla collaborazione, a scapito della competizione e dell’antagonismo. Qualche volta, con un’ipocrisia che nasconde una certa spietatezza, siamo portati per bon ton sociale a considerare buona la cooperazione e cattiva la competizione. Contro questo buonismo di facciata, una certa competizione, purché sana e leale, non guasta nella costruzione della personalità individuale, anzi. Nella competizione c’è un valore positivo, purché essa non sia sgomitare contro gli altri, ma lottare contro gli ostacoli e i limiti che la realtà personale pone. Questo tipo di esperienza contribuisce a rafforzare la fiducia in se stessi, l’affermazione di sé e delle proprie capacità. Al contrario, la mancanza di ostacoli e di limiti da superare (trovarsi sempre la strada spianata) genera una personalità insicura, che non ha avuto modo di sperimentarsi come efficace e risolutiva nel padroneggiare le difficoltà. Nel nostro tessuto sociale, in cui apertamente si promuovono la cooperazione, la tolleranza, l’integrazione del diverso, nascostamente -ma non troppo, come rivelano le azioni che contraddicono le parole-, c’è una competizione anche sleale e prevaricatoria. Forse è meglio competere lealmente come nel Karate, riconoscendo la dignità ed il valore umano dell’avversario.

il M° Contarelli richiama a una particolare attenzione nel rapporto con gli adolescenti.

A livello macrosociale è evidente come sia molto cambiato il rapporto con gli insegnanti nella scuola. Ad esempio, fino a pochi anni fa non era infrequente ricevere a casa una punizione corporale, ritenuta rieducativa, a causa di una nota di demerito ricevuta in classe… ora per la stessa nota, chi rischia di ricevere la lezione manesca è l’insegnante! Senza generalizzare, almeno in alcuni contesti sociali. Forse lo stesso scadere del rispetto e della riverenza si può riscontrare nel Karate, visto che gli attuali Maestri ricordano: «Ai miei tempi, guai a rispondere indietro! Non ci si permetteva né a casa né in palestra. Adesso invece…» Facendo finta di assolvere le intemperanze adolescenziali, il problema è molto più ampio e radicato.
Il Maestro, come istruttore di tecnica e come insegnante di vita, si propone in questa età più significativamente che nelle altre e in modo poco comune ad altre discipline sportive. Nel corso del Quarto Simposio Internazionale, il M° Contarelli richiama a una particolare attenzione nel rapporto con gli adolescenti: essi hanno bisogno di maestri, sono vulnerabili, insicuri e in travaglio interiore. È importante che, anche per mezzo del Karate, sviluppino in questa fase della loro vita una capacità critica che esiti in una personalità equilibrata e nella coscienza per cui “il divertimento non basta”.

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