“Il mio Bunkai è stato sovvertire il pronostico che aveva sentenziato che ero spacciato”.
(in KarateDo n. 20 ott-nov-dic 2010)
di Giovanni Luca Lazzaro
Suono il campanello alle 9 in punto, come concordato. Il cancello viene aperto ed entro in un bellissimo, ampio giardino con piante alte e rigogliose, l’erba perfettamente rasata; la casa con grandi portici e vetrate che danno sul giardino. Sicuramente un luogo ove regna pace e, chiaramente, agiatezza. Ma soprattutto riserbo.
Mi avvio verso la veranda da dove una voce stentorea mi invita a entrare. Nell’ampio salone, camminando leggermente a fatica, ma comunque sicuro di sé, appoggiato alle stampelle Alex Zanardi mi viene incontro. La sua è una stretta di mano vigorosa, un kime istintivo fluisce dalle mani. Di entrambi. Subito noto lo sguardo vivido e il sorriso penetrante. Proprio un bello zanshin! «Ciao Luca, tutto bene?». Dico «Sì, grazie, abbastanza bene»… e subito mi pento della banale risposta.
È una splendida e soleggiata mattina di settembre e ho la fortuna d’incontrare una persona rara, diciamo pure molto speciale. Un uomo che ha un ‘vissuto’ che merita di essere conosciuto e magari raccontato, non solo per la sua storia ma, soprattutto, per ciò che rappresenta. Di Alex Zanardi non voglio parlare del decorso della sua vita, bensì di un qualcosa che sono andato a cercare. Ho voluto incontrarlo per parlare di cose che m’incuriosiscono, che credo accomunino tutti i praticanti di Karate-do in senso stretto, e che volevo catturare in qualche modo. Aspetti della nostra vita quotidiana, del nostro essere e vivere; collegati in maniera forte e inscindibile con il modo di essere e vivere anche il Karate-do. E di questo, senza presumere, vorrei scrivere. Lui, seppur sempre impegnato e in giro per il mondo, ha subito detto sì a questo incontro. Non potevo mancare quest’occasione e intimamente ne sono galvanizzato. Un Ichi–go Ichi–e unico. Che poi mi ha fatto uscire da quella casa, da quel giardino, con un sorriso nel cuore e una sensazione che, mi son detto, dovevo cercare di tramutare in parole, righe, concetti. Provate a seguirmi e sappiatemi dire se ci sono riuscito.
Più grande è la difficoltà che affronti, più forti sono la passione e il desiderio di andare avanti. È dalle difficoltà vinte che nasce la gioia – e la consapevolezza – di aver fatto qualcosa in più degli altri.
Il pilota Zanardi è un personaggio che ha vissuto – e vive ancora – sotto le luci della ribalta. Un percorso dall’anonimato e dalla semplicità di ragazzo di periferia al jet set internazionale.
Mi fermo un attimo, seduto, a guardarlo. È sorridente e forte come un toro. Senza gambe sì, ma molto più “forte” di me. Ha una marcia in più e lo si avverte subito. Se fosse un kumite, sarei spacciato. E la serenità, che sprigiona dal modo semplice e naturale di essere, di parlare, ti conquista.
È proprio questa sua lotta per il vivere, le indescrivibili sofferenze e la tortura della riabilitazione, che mi interessa affrontare: cos’è che rende un uomo veramente forte e sicuro di sé? Cos’è la lotta per la vita? Cosa sono le nostre paure? Il Karate-do offre una chiave di lettura straordinaria dell’esistenza e porta insita nel profondo questa ricerca di valori che ritroviamo nella pratica e trasduciamo al di fuori del tatami.
Ma le domande da porre ad Alex sono difficili da strutturare, da formulare. Come fai a guardarlo negli occhi senza un brivido di nonnulla? Quindi, non domandatemi se mi sono sentito una pantomima di me stesso: forse lo ero.
Le nostre angosce del vivere appaiono sterili lamenti; la banalità del lagnarsi per futili motivi sembrano litanie a perdere, in un malessere che è, sostanzialmente, una cronica incapacità a vivere serenamente il semplice, il quotidiano. E parlare con persone come Alex può aiutare a trovare il bandolo dei ‘perché’.
Un conto è teorizzare, un altro vivere in prima persona “l’energia dell’intimo”. Un conto è dissertare di “libertà del corpo e della mente”, un conto è aver combattuto veramente a tu per tu, faccia a faccia, con la morte. Coerenza dell’essere? Sì, questo mi interessa.
Mi sovviene quella volta che assistetti, involontariamente, a un “insegnamento” durante uno stage a Calalzo (BL) con il M° Kase. Questi, avvicinatosi con discrezione a un maestro di fianco a me, chiese garbatamente: «Scusi, ma lei crede che questo suo giaku zuki sia veramente pieno? Lei è convinto di ciò che sta facendo? Crede veramente che in extrema ratio possa ammazzare un avversario se lei si trovasse in condizioni di doverlo fare? Io credo proprio di no e lo dico perché. Mi permetta, ho dovuto mio malgrado sperimentare in prima persona il mio giaku zuki… e ho ucciso per non morire». Punto.
Ecco spiegato incontro e intervista, anzi dialogo aperto, senza formule e formalismi, che con Alex diventa l’occasione – sicuramente rara – per confrontarsi sul perché anche della pratica del Karate. Credo che Alex avesse qualcosa da dirmi al riguardo. Nessun desiderio di dissertazione fine a se stessa ma, anzi, una spinta alla ricerca del senso profondo dell’essere. Una ricerca spasmodica della verità, che è desiderio e sprone a migliorarsi per vivere coscientemente, per praticare con serenità e profondità. Quindi, il desiderio di capire anche la pratica del Karate-do osservandolo da altre visuali.
Apro quindi il mio pc portatile e provo a rileggere alcune domande che ho diligentemente preparato, cristallizzate su di un file. Ma mi accorgo che non può essere una domanda, per quanto pertinente o intelligente (forse), a indirizzare un confronto così diretto e intenso. Allora richiamo le sensazioni che ho provato leggendo il libro di Alex, una biografia che racconta il suo vissuto, la sua storia, dal suo punto di vista sportivo e di uomo, ma in maniera così intensa eppure semplice, che non puoi non leggerlo d’un fiato. Così è stato per me, un libro che è racconto verace di ciò che è. Nulla più.
Dunque mi dico, prendo spunto da ciò che ho avvertito leggendo questo libro e da quanto conosco di Alex e, magari, provo a chiedergli ciò che mi passa per la mente. In libertà.
Mi sento di dire a chi ci legge: mettete in moto il meccanismo e datevi da fare. Se non parti tu non inneschi nulla. Se vuoi davvero arrivare, in avanti ci vai solo se vuoi e se ci sei.
Vorrei iniziare dal karate-do: è una disciplina e come tale richiede una totale abnegazione spirituale e fisica. Secondo te, cosa vuol dire “faticare per ottenere”?
Faticare cos’è: costrizione o emulazione? Nessun risultato arriva senza fatica, lo sappiamo. Purtroppo, siamo convinti che per evitare la fatica sia meglio trovare una scorciatoia e il mondo ne offre tante, spesso illusorie. Ma se fai qualcosa, decidi di farlo per passione e tutto ciò che farai verrà catalogato non come sacrificio, bensì, nelle cose da fare perché lo desideravi. Più grande è la difficoltà che affronti, più forti sono la passione e il desiderio di andare avanti. È dalle difficoltà vinte che nasce la gioia – e la consapevolezza – di aver fatto qualcosa in più degli altri. Tu sai di aver fatto un percorso unico: il tuo. Questo riguarda tutti, il campione come il semplice sportivo, tutti accomunati dal fatto che si è fatto in modo, chi più chi meno, di diventare semplicemente il meglio che si potesse diventare, non necessariamente il migliore. Dal mio punto di vista personale è un obiettivo molto simile sia diventare un “campione” sia essere semplicemente un “campione di se stessi”. Entrambi sono di grande soddisfazione.
Leggendo il tuo libro (Alex Zanardi nda) sono rimasto molto colpito anche dalla grande forza e spirito di sacrificio che tuo padre – e tua madre – hanno profuso per permetterti di raggiungere il tuo sogno e desiderio: diventare pilota professionista. Cosa potremmo dire ai giovani, ma non solo, riguardo ai sogni da realizzare e alle persone che ci permettono di raggiungerli?
Sono riuscito a dare grandi soddisfazioni ai miei genitori grazie all’impegno e al cuore che ho messo e bacio il terreno dove sono passati. Non smetterò mai di essere loro riconoscente per ciò che hanno fatto per me. Sono convinto che grazie ai miei sforzi ho ripagato degnamente i loro grandi sacrifici, trasformando la mia voglia e passione nella loro passione e soddisfazione nel vedermi realizzato. Sono anche convinto di averli ripagati con l’impegno e la determinazione che ho saputo dimostrare – suona forse arrogante – e con i risultati raggiunti, ma è così. Tutti noi abbiamo un destino, in gran parte già segnato, ma in parte possiamo modificarlo in ciò che vogliamo, trasformandoci nel bene o nel male e diventando molto diversi da ciò che siamo. Ritengo che sia valido il concetto che ogni cosa buona può accadere grazie anche all’aiuto di qualcuno e i miei genitori, soprattutto all’inizio, mi hanno aiutato tantissimo. Questo avvicinarsi “al positivo” e realizzarsi, può essere favorito dalla fortuna e io ho avuto fortuna nel trovare le persone giuste al momento giusto. Ma va detto che io ero là che aspettavo che il vento arrivasse in poppa, pronto a sfruttarlo. Mi sento di dire a chi ci legge: mettete in moto il meccanismo e datevi da fare. Se non parti tu non inneschi nulla. Se vuoi davvero arrivare, in avanti ci vai solo se vuoi e se ci sei.
Il futuro, perciò, è nelle nostre mani grazie al nostro duro lavoro. Noi siamo il locomotore, il sistema d’aggancio, i vagoni sono i colpi di fortuna. Carichi di cose meravigliose, magari, ma che non stanno assieme e non procedono se scollegate dal nostro lavoro, personalità, voglia di fare: il locomotore, appunto.
Il nostro lavoro è collegato ai colpi di fortuna, ma i colpi di fortuna non si collegano tra loro spontaneamente, ci vuole la tua presenza in toto, e questo è forse più arduo che non avanzare senza carico. È un lavoro continuo – anche se di lavoro non possiamo parlare – ma se è appassionante è semplicemente fantastico farlo; sbagliando anche, soprattutto, perché no?
Per quanto mi riguarda, l’incontro con Ganassi (team menager, nda) è stato il colpo di fortuna migliore, dopo che avevo fatto molti errori. Quando è successo ero pronto a raccogliere il momento, il vento in poppa, ‘agganciare il vagone giusto’. E non ho mancato l’aggancio, l’ho voluto e cercato con rabbiosa determinazione. È avvenuto che ci siamo incontrati e ci siamo detti: partiamo. E così fu.
Rifacendomi a queste tue considerazioni, dico che nella pratica del karate, nello sport in generale – e nella vita di conseguenza – la determinazione a raggiungere un obiettivo è inscindibile dalla pratica costante, che è dura e difficile. Io non vedo strade alternative, ma purtroppo verifico come il messaggio che passa in generale, molto mediatico, sia: easy without efforts, ovvero, successo facile senza faticare. Tu cosa dici?
Ti rispondo parafrasando. Se tu fai una cosa con passione inizia anche il divertimento; l’aspetto più affascinante è lavorare con qualcosa, per qualcosa, ma soprattutto per noi stessi. Nel momento in cui ottieni il risultato sei alla fine del gioco e quasi quasi, ci rimani male. Sognare di arrivare a un determinato traguardo e arrivarci – e non avviene in un battito di ciglia – è scontato laddove hai costruito un percorso serio, senza errori, con grande amore e dedizione. L’hai preparato e perché mai non avresti dovuto arrivarci? Diverso, quindi, è mettersi in cammino per arrivare al sogno lasciando alla fatica il suo giusto spazio, ma non tutto. E allora sei dentro il tuo cammino e non è un sacrificio ciò che fai, ma la gioia per come lo fai. Ed è come aggiungere un tassello a ciò che stai tentando di costruire e che vedi chiaramente nella tua testa.
Per esempio, ritengo che ogni campione che riesca a ottenere i propri scopi, in qualsiasi disciplina o sport, abbia due opzioni: osservare le proprie coppe e medaglie in bacheca per notarvi la polvere che inevitabilmente vi si poserà sopra, e a me questo non interessa, oppure, ricordare il cammino che quel trofeo è lì a testimoniare. Se ti ricorda il percorso, il cammino e quanto di tuo c’hai messo, il sorriso che ti strappa è molto dolce e il tuo essere cambia in meglio. Questo, per esempio, è ciò che vivo osservando i miei trofei, rivivendo con la memoria la mia “fatica” e, quindi, il mio successo. Che non è affatto appannaggio di chiunque pensi easy without efforts. Che è e rimane una chimera per incapaci.
L’incidente è un momento dei più forti: certo. Mi ha reso più acuto e capace davvero di vedere le cose in modo oggettivo per quello che sono, senza drammi né semplificazioni, e vivere soggettivamente una vita bellissima.
Concordo pienamente. Ma parliamo nuovamente di te. Mi pare inevitabile, ma non vorrei essere troppo banale, del terribile incidente che hai vissuto, qual è la verità più grande che puoi dire di aver maturato?
Non esiste limite al peggio, ma non esiste meglio al meglio. Dipende tutto da noi. Ma se non porti a casa la pelle non puoi rendertene conto. Beh, sono contento di non aver visto l’altro mondo, credimi. Ma da lì sono ripartito e penso che la fortuna più grande non sia stata leccarsi le ferite, quanto verificare come le mani siano ben saldamente ancorate alle cose vere, alla vita e rendermi conto che non sono io un esempio in quanto “sopravvissuto” ma, più semplicemente, sono costantemente ispirato da persone che fanno cose meravigliose senza farsi notare, senza clamore, senza attenzione mediatica.
L’incidente è un momento dei più forti: certo. Mi ha reso più acuto e capace davvero di vedere le cose in modo oggettivo per quello che sono, senza drammi né semplificazioni, e vivere soggettivamente una vita bellissima. Saper apprezzare ciò che sono e ho. Questo è l’importante.
Tu, quindi, hai visto la morte in faccia, possiamo dirlo senza eufemismi. Ti senti di dirmi cos’è morire e rinascere e cos’è che ti ha spinto a vincere il tuo “Bunkai” della sopravvivenza?
Credo di avere un rapporto sereno con la morte. Ho potuto verificarlo. Mi dispiacerà forse, perché è più aulico pensare a una morte “sensazionale”, ma credo che mi addormenterò con un sorriso, se potrò farlo. Credo che avrò la sensazione di aver vissuto pianamente. Per me l’importante era il “non ancora” e tale è rimasto: ho ancora tante cose da fare con gioia, nella vita.
Proprio per questo, la mia riabilitazione ho voluto affrontarla con grande entusiasmo. Trovare il modo di fare cose che altri non avevano fatto, ottenere risultati per superarmi. Ma vorrei ricordarti che molte altre persone come me hanno saputo affrontare momenti così tremendi. Per me la sfida era e rimane saltare oltre l’asticella, spostarla in alto; è troppo alettante. Credo perciò sia stata questa la molla della rinascita: riposizionare l’asticella e i riferimenti del mio vivere più in alto. Questo è il modus operandi di tante persone, fare ciò che ci si prefigge cercando anche di superarlo, se possibile.
Quello che ho potuto fare è stata per me una vittoria di enorme importanza. Sono un caso irrisolto, perché dovevo solo morire. Il mio Bunkai è stato sovvertire il pronostico che aveva sentenziato che ero spacciato. Gli scienziati si domandano tutt’ora come mai non sono morto. Credo di averlo intuito: un pizzico, enorme, di fortuna e la mia asticella da riposizionare. Tutto qui…
Che dire? Chapeau! Quindi, insisto, cos’è che ritieni stupido e inutile nella vita di una persona?
Nulla è stupido e inutile nella nostra vita. Personalmente credo però che fare tante cose come faccio, per esempio essere accomodante con gli altri, non sia intelligente e utile. Quando puoi, bene, altrimenti non importa. Quando devi acconsentire a dare agli altri rinunciando a cose che sono più importanti per te stesso è un grave errore. Ciò che ho vissuto mi ha dato prospettive e chance nuove, ma essere più manager di se stessi e organizzati vuol dire ridurre gli sprechi, ottimizzare il come e a chi dare. Io sono incapace a non dire di no e mi irrito quando verifico come stia dando troppo, ma troppo male. Sprecare del tempo davanti alla televisione: ecco, questo è stupido e inutile. Come, a vent’anni, anteporre amici e discoteca al proprio talento evitando di svilupparlo, perché troppo occupati a “divertirsi” e basta. Ognuno deve poter vivere la propria vita, ma che sia ponderato, possibilmente. Se per te è davvero importante cogliere e coltivare il tuo talento, la tua voglia di fare, e non fai nulla per realizzarlo, questo è grave. Questo sì che ritengo sia stupido.
Niente male, direi, e piuttosto chiaro. Praticare Karate–do è, in quest’ottica, imparare anche ad amare noi stessi, valorizzandoci. Secondo te cosa vuol dire amarsi?
Credo di aver capito che non è la stessa cosa per tutti e non mi sento di dare una definizione per assioma, perché non ha lo stesso significato per ciascuno di noi, ma rimane un modo di essere universale. Sono persuaso che dobbiamo convincerci che non siamo soli. Che fare per gli altri e ricevere un sorriso è molto più gratificante che fare, solo per noi, cose “grandi e importanti”. Allungare la mano a chi è girato dall’altra parte per aiutarlo, essere compiaciuti di poterci sedere e pensare a noi, è un mettere insieme individualità e sensibilità per gli altri. Cercare una serenità a cui abbiamo diritto, ma che magari ci è negata, perché impedita dai troppi casini che ci creiamo. Cercare una nostra serenità in noi stessi. Volerci bene, per poi donarci agli altri. Questo è per me amare.
Proprio riprendendo questo senso dell’amarsi, vorrei sapere qual è stato il primo pensiero quando hai riaperto gli occhi? Ti senti di dirmelo?
Banalmente: contento di essere lì. Non potevo muovere un muscolo, stordito e dolorante. Distrutto nel fisico che non c’era più. Non lo sentivo proprio più. Immobile. Ma ero già molto contento di essere di nuovo lì. Semplice, quanto straordinario.
Credo perciò sia stata questa la molla della rinascita: riposizionare l’asticella e i riferimenti del mio vivere più in alto.
Vorrei chiudere con la domanda che nasce spontanea, da karateka: coraggio e forza. La tua opinione?
La forza è la capacità di fare il “tempo”, di essere veloci, la prestazione pura che è dentro di te, ma che non viene fuori il primo giorno che sali sul go-kart. Devi capire che c’è, devi allenarla, consapevolmente. Un giorno hai il serbatoio pieno e sai che la puoi usare. Non devi sprecarla, ma usarla nel momento giusto, con calcolo, per il fine corretto. Quando serve? Quando sei di fronte a un bivio e vuoi intraprendere quella strada che pochi hanno preso, magari fallendo miseramente. Ma sei convinto che facendo giusto puoi percorrerla. Ti sconsigliano e tu tentenni. Rimetti tutto in discussione, perché gli altri te lo suggeriscono e la paura affiora. Allora ricalcoli probabilità di successo e insuccesso. E la tua teoria trova riscontro nuovamente nei tuoi calcoli. E sei convinto di te stesso. E ricalchi fedelmente il percorso già fatto guardando nuovamente oltre. E il risultato è: “certo che si può fare, anche se nessuno l’ha fatto!”. Ma sai che va fatto in un determinato modo, un modo nuovo che tu senti di poter gestire. Coraggio e forza è fidarsi di se stessi. È ottenere qualcosa che nessuno aveva pensato realizzabile.
L’incoscienza a volte aiuta, perché se calcoli troppo troverai sempre una variabile che ti spaventerà e fermerà. L’incoscienza è tipica dei giovani che osano istintivamente senza ragione, ma il risultato potrà essere solo casuale e difficilmente ripetibile. Essere forti è sapere chi sei e volere superarsi con raziocinio. Dal punto di vista automobilistico è il sorpasso: pochi millesimi di secondo per decidere se posso o non posso farcela. Ma se io preparo il sorpasso e studio il mio avversario per molti giri e rendo la manovra possibile perché l’ho preparata, riuscirò laddove l’altro riteneva impossibile.
Negli USA ho lasciato il bel ricordo di essere un pilota “forte” grazie ai sorpassi compiuti: coraggioso e determinato. Ho tentato sempre di guardare in faccia, a occhi aperti, la realtà delle cose. Molte volte sono andato contro il muretto distruggendo me e l’auto, rischiando la vita. Ma quando ho azzeccato il momento giusto, perché costruito bene in precedenza, beh… che forza ragazzi!
Gli italiani erano considerati solo dei casinisti e il mio ingegnere inizialmente mi detestava. Non mi credeva, non mi voleva nel team. All’inizio mi rifiutava perché ‘italiano’, ma poi è diventato il mio più grande fan. Perché costruivo corsa e prestazione ponendo la massima attenzione ai dettagli. Il “naturalizzare” determinate cose dopo averle comprese è la vera forza di un campione, di una persona. Possiamo imitare gli altri – a proposito di scorciatoie – ma, come diceva mio padre, “chi copia piglia 5” ossia sbaglierà sempre.
Spesso invidio i ragazzi per la loro naturale forza di vita. La cosa bella non è arrivare, ma il percorrere la strada sognando il risultato, godendo del presente, assaporando il vivere quotidiano. È una cosa fantastica. Se ripenso ai giorni più belli della mia carriera è quando correvo in go kart, sognando di arrivare a correre su di una vera macchina da corsa. Quello è stato il momento più bello. Pensavo avrei vissuto chissà quali sensazioni un giorno, ma stavo già vivendo il massimo del bello. Sognavo, camminando già nel mio futuro.
Silenzio. Chiudo il computer. Guardo Alex, mi alzo e gli stringo forte la mano: «Oss!». E lui, sorridendo: «Non ho capito cosa voglia dire, ma credo tu sia forte».
Grazie Alex! Di cuore.