L’esercizio continuo di principi fondanti quali la consapevolezza di sé, unita e integrata con la totalità, permette l’assimilazione di un’educazione universale, valida ovunque nel mondo, che è solo un dōjō più grande.
(in KarateDo n. 19 lug-ago-set 2010)
Nel dōjō si produce un’educazione che non dovrebbe essere circoscrivibile solo al suo perimetro. La relazione e la reciprocità esistenti tra spazio, ambiente (che corrisponde alla natura-cultura che attraversa e connota uno spazio) e persone, vanno tradotte in una comprensione dell’uso preciso ed educato di un ambito, in questo caso identificato nel dōjō e la sua diretta estensione che è lo spogliatoio.
Personalmente sono convinto che la razionalizzazione e l’etichetta nell’uso dello spogliatoio, come di qualsiasi altro locale in un dōjō, facciano parte della “pratica” in quanto contribuiscono a stabilire propedeuticamente la corretta attitudine antecedente l’allenamento vero e proprio.
L’esercizio continuo di principi fondanti quali la consapevolezza di sé, unita e integrata con la totalità, permette l’assimilazione di un’educazione universale, quindi, valida ovunque nel mondo, che è solo un dōjō più grande.
Di fatto, non dovrebbero esserci distinzioni nell’applicare la propria concentrazione tra un aspetto dell’esistere e l’altro. È importante, quindi, anche all’interno dello spogliatoio, darne espressione concreta e trasmettere la nostra attitudine concentrata nel sistemare le nostre cose in ordine e utilizzando solo lo spazio necessario.
Affinare continuamente il proprio comportamento ha la stessa valenza del perfezionare la propria tecnica, la propria pratica, la propria vita.
Un piccolo “kata” che prefiguri un uso corretto e didattico dello spogliatoio potrebbe svolgersi in questo modo: arrivando nel dōjō dall’esterno è bene togliere subito le calzature ed indossare le ciabatte, riporre con cura i propri abiti, borse o zaini, predisporre l’occorrente per la doccia a fine allenamento.
Nel posizionare le proprie calzature propongo la modalità in uso in Giappone e non solo, vale a dire che andrebbero allineate con la punta verso l’esterno e il tallone verso la parete, comunque con la punta rivolta verso di noi.
Molte possono essere le spiegazioni possibili attribuibili a questo gesto semplice e raffinato la cui origine affonda nell’antropologia. La prima valenza è la comunicazione pratica, fattiva, del ripetere rinnovando, o ripetere senza ripetere (costante nello studio del karate), attitudine fondamentale per vivificare ogni gesto, ogni attimo. È bene che la gestualità quotidiana preservi e attivi la vita, intesa quale azione mai uguale a se stessa. Eraclito diceva che “Non ci si può bagnare due volte nello stesso fiume” questo perché, ogni volta, è contemporaneamente la prima e l’ultima volta, di volta in volta. Oppure, la volta successiva non è mai la riproduzione di quella precedente, sono sempre diverse anche se riproducono lo stesso gesto. Quindi, il gesto è la funzione e l’esito di se stesso, vale a dire che la consapevolezza costante che deve animarlo è nutrimento ed evoluzione, sia del gesto medesimo, sia della concentrazione necessaria al suo prodursi. Così, prendere le calzature e raddrizzarle per indossarle o riporle, statuisce, certifica continuamente il mio esserci, la mia presenza attiva rispetto alle cose, al mondo.
In questo modo si struttura il rispetto per le cose e quanto ha concorso a costituirle, in un processo di rimandi e cause illimitato che rivela la loro natura originale.
Il principio educativo che si induce contribuisce ad approfondire la propria pratica, la propria attitudine concentrata.
A fine allenamento, togliendosi il karategi, ripiegarlo in modo appropriato e deporlo senza occupare altro spazio che non sia quello proprio, dove si trovano già le nostre cose. Nell’uso della doccia è bene consumare solo l’acqua indispensabile, vale a dire bagnarsi, insaponarsi, sciacquarsi, per consentire a tutti di poter rapidamente accedere al servizio. Crogiolarsi a lungo sotto l’acqua, mentre altri stanno aspettando il loro turno, è una mancanza di rispetto ed uno spreco. Nulla è illimitato, il nostro tempo, l’acqua e così via.
Affinare continuamente il proprio comportamento ha la stessa valenza del perfezionare la propria tecnica, la propria pratica, la propria vita.
È bene che la gestualità quotidiana preservi e attivi la vita, intesa quale azione mai uguale a se stessa.
Dōgen Zenji afferma nel Genjō kōan: “Apprendere se stesso è dimenticare se stesso. Dimenticare se stesso è essere inverato da tutte le cose. Essere inverato da tutte le cose è libertà nell’abbandonare corpo e spirito di se stesso e corpo e spirito altrui. È risveglio che riposa da ogni traccia di se stesso, è risveglio che perpetua il non lasciare traccia di se stesso.”
Se nel riporre gli abiti, o fare qualsiasi cosa, posso dissolvere il dualismo soggetto-oggetto, se posso non attivare giudizi concettuali quali superiore o inferiore, allora sarò sicuramente più capace di guardare negli occhi chiunque di fronte a me con uno spirito libero e dare espressione a questa libertà conquistata.