La missione più importante della mia vita sarebbe stata quella di continuare a praticare e a studiare il karate per portare avanti l’insegnamento trasmessomi dai miei due Maestri.
(in Karate Do n.16 lug-ago-set 2009)
Il Maestro Shirai nasce il 31 luglio del 1937 in Giappone, nella provincia di Nagasaki. In particolare, trascorre tutta la sua infanzia tra le più belle isole e penisole collocate a sud ovest di Kyushu, un’area oggi dichiarata parco nazionale e riserva marina protetta. «Passavo le mie giornate sempre all’aria aperta, correvo e giocavo nei campi, mangiavo la frutta appena raccolta dagli alberi, giravo con la barca tra le isole di fronte a casa, nuotavo e pescavo tutto il giorno, senza quasi mai studiare! Questo è il ricordo più bello dell’ infanzia trascorsa nel mio Paese» ci risponde il M° Shirai alla prima domanda che gli rivolgiamo sulla sua vita in Giappone. Il più piccolo della famiglia, composta anche da altre due sorelle e un fratello maggiori, il Maestro ha ricevuto dai suoi genitori un’educazione molto seria, basata sul rispetto per le altre persone e sulla capacità di sopportare la povertà. Così egli ci racconta: «Era appena finita la guerra e ho vissuto in un periodo difficile, ma nonostante ciò i miei genitori hanno sempre sostenuto me e i miei fratelli in quello che desideravamo fare. Per questo ho deciso di continuare a studiare anche dopo le scuole superiori e, pur lavorando, ho potuto fare l’università».
Vivacità, forza, esuberanza, passione, queste le prime impressioni sulla grande personalità del M° Shirai che, fin da bambino, dimostra determinazione, coraggio e convinzione nel seguire la propria strada: quella di un grande Maestro di Karate.
Maestro, come ha scoperto il karate e quali altri sport ha praticato prima?
Iniziai con l’atletica leggera alle scuole elementari e proseguii fino ai 18 anni con questa attività. Contemporaneamente, dall’età di 15 anni e fino al termine della scuola superiore, praticai kendo e judo.
Scoprii il karate nel 1953 tramite un filmato divulgativo della Japan Karate Association e ne iniziai la pratica sotto la guida del M° Nishiyama nel 1955, al mio primo anno di università.
Cosa ci racconta dei suoi primi anni di pratica e di successi agonistici?
I miei primi campionati nazionali universitari, organizzati dalla JKA, si sono svolti nell’anno accademico 1958-1959. L’unica competizione prevista era il kumite a squadre e noi vincemmo. Nel 1959 partecipai al mio primo campionato JKA, ottenendo un terzo posto nel kumite individuale. Tre anni dopo, nel 1962, vinsi l’oro nel kumite e l’argento nel kata individuale.
Dal punto di vista tecnico questo periodo è stato fondamentale: ho appreso tattiche e strategie di combattimento, sviluppando al tempo stesso velocità, potenza, esplosività e, soprattutto, ho acquisito la precisione in ogni singolo colpo. Oltre a ciò, ho imparato e conosciuto a fondo tutti i kata dello stile Shotokan.
Nel 1960 iniziai il corso per istruttori della JKA, sotto la guida di vari Maestri: Nakayama, Nishiyama, Kase, Sugiura e Okasaki. L’allenamento era veramente duro, ma quello che conta è che il livello era altissimo ed ogni singolo aspetto del karate era studiato profondamente. In quel periodo, inoltre, ebbi tanti compagni di corso che sono diventati poi dei grandi maestri. Tra gli altri ricordo: Shoji, Kanazawa, Mikami, Enoeda, Yaguchi, Asai, Sato, Yamaguchi, Ueki e Ochi.
Quando, in particolare, ha conosciuto il Maestro Kase?
Incontrai il M° Kase per la prima volta presso il dojo della Jka. Vidi subito che il suo karate era potente, esplosivo, veloce e, al tempo stesso, fui colpito dalla sua estrema gentilezza.
Il M° Kase teneva, soprattutto, alla dimostrazione dell’applicazione del kime, quale massima capacità di unire respirazione, energia mentale e dinamica del corpo.
Che tipo di rapporto si è instaurato tra Lei e il Maestro Kase?
Ho trascorso con il M° Kase 45 anni della mia vita, i primi sei in Giappone, di cui due abitando a casa sua. In quel periodo il M° Kase mi ha trasmesso l’insegnamento del Karate come da lui appreso dal M° Yoshitaka Funakoshi. Le sue parole, le sue azioni ed il suo modo di vivere riflettevano sempre quelle del budo.
Per questo, negli anni successivi, vivendo in Europa ed insegnando nel mondo, si è instaurato tra di noi un rapporto particolare. Non può essere inteso come una relazione padre-figlio o fratello maggiore-minore, bensì come una vera relazione tra maestro ed allievo basata su principi di sincerità, cordialità, lealtà, amore, rispetto, altruismo, gentilezza e coraggio.
Su cosa in particolare avete lavorato insieme e che cosa più di ogni altra Le è stata insegnata dal Maestro Kase?
Ho costantemente lavorato insieme al M° Kase per creare un gruppo di maestri capaci di trasmettere l’essenza del Karate do, ovvero i principi del Budo. Il M° Kase mi parlava sempre di quanto fosse rimasto impressionato dai suoi maestri e compagni, quali Yoshitaka Funakoshi, Egami, Okuyama, Hironishi e Takaghi. Questi modelli erano perennemente nella sua mente e costituirono la base fondamentale da cui sviluppò il suo stile, i suoi valori ed il suo modo di praticare ed insegnare Karate. Il M° Kase, infatti, era convinto che solo conducendo la propria vita sull’esempio di tali figure, sarebbe riuscito a mantenere sempre vivo lo spirito del karate do come gli era stato insegnato. Per questo, egli si allenava costantemente e teneva, soprattutto, alla dimostrazione dell’applicazione del kime, quale massima capacità di unire respirazione, energia mentale, e dinamica del corpo. Risultava, così, una straordinaria potenza che veniva dal profondo e si percepiva in ogni sua dimostrazione, anche nell’esecuzione di una singola tecnica.
Questo autentico esempio di vita è il valore più grande che il M° Kase mi ha trasmesso, senza il bisogno di ricorrere a scritti, libri o altri mezzi di diffusione di tipo materiale.
Maestro, quando ha capito che la pratica e la diffusione del karate sarebbero diventate la sua “missione” nella vita?
Terminata l’università, sotto consiglio del M° Suzuki, avrei potuto esercitare la professione d’insegnante di geografia presso la scuola superiore dell’università di Komazawa. Contemporaneamente però, il M° Nishiyama mi propose di iniziare il corso per istruttori organizzato dalla JKA, prospettandomi la futura possibilità di lavorare all’estero come maestro di Karate. Fu in quell’occasione che decisi per la prima volta di fare il maestro di Karate. Questa consapevolezza si è sviluppata ed è sempre più maturata in me nel corso del tempo e degli eventi che si sono verificati. Nel 1965, infatti, sono approdato in Italia per conto della JKA e, dopo un periodo d’insegnamento durato sei mesi, decisi di rimanervi perché erano oramai numerosi gli allievi di diverse città italiane che seguivano i miei corsi.
Un’ulteriore conferma della strada che stavo percorrendo l’ebbi nel 1974 quando il M° Nishiyama, stabilitosi negli USA mentre io ero in Italia, mi propose di iniziare con lui una nuova collaborazione a livello internazionale. Nacque così l’International Amatour Karate Federation, il cui rappresentante europeo era il Dott. Giacomo Zoia e ricordo come fosse ieri quando ci recammo insieme a New York per fondare la nuova organizzazione.
A partire da quel momento iniziò una nuova e sempre più stretta collaborazione con il M° Nishiyama, finalizzata a promuovere la diffusione e l’insegnamento del karate a livello mondiale. Tale collaborazione durò fino alla morte del Maestro, avvenuta nel novembre del 2008. Dopo quel momento, così come dopo la morte del M° Kase (2004), ho compreso fino in fondo che la missione più importante della mia vita sarebbe stata quella di continuare a praticare e a studiare il karate per portare avanti l’insegnamento trasmessomi dai miei due maestri.
La missione più importante della mia vita sarebbe stata quella di continuare a praticare e a studiare il karate per portare avanti l’insegnamento trasmessomi dai miei due Maestri.
Maestro Shirai, può dirci più in particolare come e quando è arrivato in Italia?
Venni in Italia nell’ottobre del 1965 per conto della JKA e su invito del M° Roberto Fassi, pioniere del karate italiano, allievo del M° Shouk di Parigi. Arrivai insieme a Kanazawa, Enoeda e Kase, direttamente dal Sud Africa, dove mi trovavo sempre per conto della JKA. Svolgevo l’attività di insegnamento presso la palestra di Judo “Jigoro kano” di Milano, che aveva organizzato un corso di karate.
Che cosa ricorda con più piacere del karate di quel periodo?
Il modo di insegnare e di praticare il karate durante quel suo primo periodo di diffusione in Italia fu lo stesso che mi venne insegnato e trasmesso in Giappone dai miei Maestri. Gli allenamenti erano molto duri e faticosi. Il passaggio di grado era difficilissimo: su trecento persone che intendevano sostenere l’esame ne passavano una trentina. Il livello appreso dagli allievi era quindi molto alto ed il “nostro karate”, anche agli occhi dei Maestri giapponesi, era estremamente corretto e preciso nei fondamentali, nello studio dei kata e nell’applicazione delle tecniche di base del kumite.
Che cosa è cambiato oggi rispetto ad allora?
Pur essendo rimaste identiche le basi ed i principi fondamentali del karate do, il nostro modo di praticare si è raffinato e si è evoluto notevolmente rispetto al passato. Essendo aumentato il livello tecnico di tutti i praticanti, infatti, l’allenamento viene oggi studiato in modo più razionale ed è basato su un metodo di insegnamento più efficace. Il karate che iniziai ad insegnare a partire dal 1985, in particolare, ha subito uno sviluppo tale rispetto al passato che difficilmente, coloro che si staccarono da me nel periodo compreso tra il 1975 e il 1980, sarebbero in grado di capire. Solo chi ha seguito costantemente il mio percorso di insegnamento e, ancora adesso, continua a praticare con me, può rendersi veramente conto di come e quanto il karate di oggi si sia raffinato e sviluppato rispetto a prima. Per tutto questo dobbiamo ringraziare anche e soprattutto la nostra Federazione che, attraverso lo studio continuo di nuove metodologie d’insegnamento, garantisce un altissimo livello di organizzazione dei corsi per istruttori e maestri.
Ciò che non è cambiato rispetto al passato sono i valori fondamentali dello stile di karate Shotokan tradizionale.
Che cosa, invece, si è conservato oggi del karate tradizionale praticato in passato?
Ciò che non è cambiato rispetto al passato sono i valori fondamentali dello stile di karate Shotokan tradizionale, ovvero il modo di praticarlo secondo i principi che appresi direttamente dai Maestri della JKA negli anni ‘60-‘70 e che, fino a oggi, ho continuato ad allenare e approfondire. Questo modo di praticare è stato poi trasmesso da me ai miei allievi i quali, ora maestri, devono a loro volta assumersi il compito di insegnarlo. Esso può riassumersi nei seguenti punti:
1) corretta pratica delle tecniche di base attraverso il kihon per sviluppare il kime.
2) La dimostrazione del proprio kimè nel kumite attraverso il massimo controllo e nell’esecuzione dei vari kata.
3) L’evoluzione dello spirito per mezzo della pratica, ovvero lo sviluppo del Ki da un lato e, dall’altro, di uno stile di vita basato su sincerità, serietà, gentilezza, cordialità, amore, rettitudine, coraggio, altruismo e pazienza.
Com’è effettivamente possibile tramandare nel tempo questo modo di praticare il karate?
Ogni istruttore e maestro di karate deve avere dentro di sé una forte credibilità. Il termine giapponese che meglio esprime questo concetto è “shin nen” ovvero “credere con estrema decisione e praticare ciò in cui si crede senza alcun minimo dubbio”. Solo grazie a questa forte convinzione di spirito, che ogni istruttore e maestro deve avere dentro di sé, i valori fondamentali del karate tradizionale potranno conservarsi e rimanere intatti nel tempo. Non si tratta di beni materiali, ma di un patrimonio e una ricchezza di estrema importanza che potranno tramandarsi soltanto da persona a persona, da spirito a spirito e da maestro ad allievo, attraverso una pratica quotidiana che sia al tempo stesso “tecnica e spirituale”.
Questo discorso vale anche per l’agonismo. La competizione o la gara è definita in lingua giapponese con il termine shi-ai e rappresenta una prova di se stessi contro un avversario, attraverso la quale è possibile raggiungere un continuo miglioramento personale dal punto di vista tecnico. Questo, tuttavia, non può limitarsi a essere l’unico scopo di un agonista. Il fine ultimo di una competizione consiste nel praticare costantemente lo spirito del Budo, attraverso l’allenamento quotidiano delle tecniche. Continuando a praticare le tecniche di karate per vincere una competizione, dobbiamo anche cogliere l’occasione per sviluppare e praticare lo spirito ed i valori fondamentali del karate Shotokan tradizionale. I maestri e gli istruttori devono comprendere fino in fondo questi valori, praticarli costantemente anche al di fuori del Dojo, nelle più diverse situazioni della loro vita quotidiana. Soltanto in questo modo anche i loro allievi, agonisti e non, potranno apprendere i valori spirituali del karate do.
Questo modo di praticare è stato poi trasmesso da me ai miei allievi i quali, ora maestri, devono a loro volta assumersi il compito di insegnarlo.
Quale soddisfazione interiore si prova ad aver percorso questo lungo, faticoso ed affascinante, cammino per oltre 40 anni?
Anche se fisicamente comincio a sentire la fatica, provo sempre un grande entusiasmo nel mantenere alto il mio livello di “karateka”. In particolare, ciò che riesco a tenere sempre vivo attraverso l’allenamento, è il livello massimo del kime durante l’esecuzione delle tecniche.
Dopo anni di pratica e di insegnamento, inoltre, ho una visione molto chiara delle cose e di tutte le decisioni che devo prendere, sia riguardo la mia vita privata sia riguardo l’insegnamento e l’organizzazione del Karate.
Infine, ciò che mi stimola continuamente sono i miei allievi e tutte le persone che mi seguono, è grazie a loro se, ancora oggi, continuo la mia attività di insegnamento.
Per queste ragioni provo oggi una grande soddisfazione: quella di continuare a percorrere, dopo tanti anni di pratica e d’insegnamento, la via del Budo karate, ovvero di condurre un’esistenza in base al metodo di vita di un Samurai.
Qual è la cosa che più si augura per lo sviluppo futuro del karate?
Ciò che più mi auguro è che la “cultura” del karate sia tramandata anche alla prossima generazione. Credo che per questo sia fondamentale la forza di un’organizzazione e, in particolare, mi riferisco alla necessità che la nostra federazione continui a svolgere anche in futuro tutte le diverse attività ed eventi di cui attualmente si occupa, riuscendo così a mantenere sempre vivi gli interessi e l’entusiasmo dei diversi praticanti.
Il fine ultimo di una competizione consiste nel praticare costantemente lo spirito del Budo.
Maestro, quali persone più di tutte vorrebbe ringraziare?
Sono tantissime le persone che vorrei ringraziare e non è possibile qui elencarle tutte. Tra queste ricordo con estrema gratitudine tutti gli allievi che mi hanno sempre seguito, rendendo possibile i miei insegnamenti e la mia attività di maestro. Ringrazio poi, in particolare, alcune persone che sono state fondamentali nella mia vita. Primi fra tutti i miei genitori, insieme ai genitori di mia moglie. Poi, certamente, la mia famiglia, composta da mia moglie Adelangela e dai miei figli Yuri, Yumi e Yoshihiro: senza di loro non sarei stato lo stesso, non solo come maestro di karate ma, anche più semplicemente, come uomo.