Incontro con il monaco buddista M° Mitsutaka Koso. Castellanza (VA) – 19.01.2008
(In KarateDo n. 10 apr-mag-giu 2008)
Traduzione M° Shuhei Matsuyama e Michele Gambolò.
La lezione del M° Koso è cominciata con il saluto, come si conviene in queste occasioni.
Il M° Koso ha inizialmente ringraziato tutti noi presenti, perché lui dà alla nostra partecipazione un senso di profonda gratitudine (okage = on). In Giappone la parola okage è utilizzata frequentemente per il suo significato derivato dal buddismo, che indica la nostra esistenza non come singola e solitaria, ma in relazione con tante persone, visibili e non, e significa interdipendenza. Poi, il Maestro inizia.
Anche questa volta ho vestito l’abito da monaco (koromo). Per me, come per voi quando indossate il karategi, subentra una maggiore carica emotiva. Naturalmente anche senza il koromo dovrei essere lo stesso, ma la mia maturazione non si è ancora compiuta…
Mi piace ricordare il motto della vostra Federazione: “Karate no shugyo wa issho de aru”. Credo che questo sia alla base della volontà e della riflessione che mostrate ogni giorno per perseguire il vostro obiettivo della conoscenza del karate-do. Davanti a questo io mi inchino profondamente.
Lo stesso pensiero lo estendo al dojo kun. Credo che voi, almeno nel momento in cui entrate nel dojo per l’allenamento, sappiate come indirizzare il vostro cuore e ciò dovrebbe accadere sempre.
Le parole recitate hanno sicuramente un legame con lo spirito, l’anima, la mente e il cuore. Per questo forse voi mi chiamate in qualità di monaco e non di praticante il karate-do, per scoprire qualcosa legato allo spirito. Sarei molto felice di poter essere utile allo sviluppo del vostro cammino.
Il termine dojo è, attualmente, internazionale e la sua origine deriva da un libro sacro buddista Sutra. Nell’accezione sanscrita dojo si dice bodhi-manda.
Nella cultura giapponese apparentemente non si vede, ma esiste una radice profonda nello spirito buddista e nel budo. Oggi vorrei trattare due argomenti, il dojo e il ku o kara.
Voi sapete che il luogo del vostro allenamento si chiama dojo. Questa parola inizialmente era usata per definire il luogo di studio dei monaci (il tempio) e della pratica zazen. Era dunque il posto dove si praticava il miglioramento dello spirito e del corpo. Per tale motivo noi, oggi, rispettiamo e salutiamo profondamente questo luogo.
Il termine dojo è, attualmente, internazionale e la sua origine deriva da un libro sacro buddista Sutra. Nell’accezione sanscrita dojo si dice bodhi-manda. Bodhi significa letteralmente illuminazione, risveglio; manda definisce lo stato di luogo. Arrivando in Cina bodhi-manda non aveva una precisa traduzione, quindi è stato sostituito con il termine taoista di lao-tsze.
Possiamo dunque dire che bodhi-manda indica il luogo dove Buddha si è illuminato, risvegliato. Successivamente l’espressione è stata utilizzata per indicare i posti dove Buddha insegnava. Da questo momento il luogo della pratica è il dojo.
Uno dei vari Sutra chiamato Vimalakirti-nirdesa-sutra (in giapponese yuimakyo), è stato tradotto da Kumaraju (monaco indiano, 344-413 d.C.), in più di dieci anni, dall’indiano al cinese. Vimalakirti è il nome del protagonista di questo Sutra e significa persona con fama di purezza.
Questo personaggio era sposato e con figli, quindi, non un monaco distaccato dal mondo, che non aveva ancora praticato lo shukke, cioè l’abbandono della vita ordinaria, di cui vi ho parlato la volta scorsa. Era un laico non ancora shukke sha, in pratica una persona comune che ha avuto successo nella società come imprenditore e che si dedicava anche all’aiuto dei poveri. Era dotato di saggezza propria e non cercava il confronto con altre persone. Nella vita comune era una persona che aveva percorso la sua strada nel rispetto dell’insegnamento di Buddha.
Forse questo Sutra è stato scritto oltre due/trecento anni dopo la scomparsa di Buddha, come riforma della pratica del buddismo mahayama, rivolto a una elite ristretta, e come grande veicolo di coinvolgimento di tutto il popolo. La pratica dell’insegnamento di Buddha poteva quindi trovare un riscontro nella vita di tutti i giorni.
Vimalakirti cerca di spiegare l’insegnamento di Buddha in vari modi, addirittura fingendo di ammalarsi. Il suo obiettivo giustifica l’espediente. La strategia stravagante, utilizzata per coinvolgere più persone, deriva dalla sua capacità imprenditoriale. Il personaggio incuriosisce anche Buddha che decide d’inviare un discepolo ad ascoltare Vimalakirti. Ma il discepolo si ritira dall’incarico e Buddha risponde a Kogendoji: “Maestro qualche tempo fa, mentre uscivo dalla città, ho incontrato Vimalakirti e facendo il saluto a mani unite gli ho chiesto da dove venisse ed egli mi rispose che veniva dal dojo! Allora gli chiesi dove era dojo…”.
[Anche il M° Koso rivela che inizialmente non capiva il perché della domanda e soprattutto la risposta! Pensate anche voi cosa potrebbe significare dojo.]
Vimalakirti rispose:
“Una persona che ha il pensiero retto è dojo, perché non ha dubbi, non è falso. La pratica del proprio dovere è il dojo. Con la costanza si arriva al successo.
La persona che ricerca lo stato del satori è dojo, perché ha un giusto obiettivo e non può commettere errori. Misericordioso, umano, è dojo. Così è la persona che agisce senza pensare di ricevere una ricompensa.
Chi ha la costanza di mantenere il precetto e l’insegnamento è dojo, perché può esaudire il suo desiderio. Sopportare è dojo, libero da pregiudizi e, con l’aiuto della pazienza, può arrivare libero al piacere. La costanza è dojo, perché esclude la trascuratezza.
La calma e la tranquillità dell’anima sono dojo, perché possono fare diventare flessibile e tollerante il proprio cuore. La saggezza è dojo, poiché aiuta a guardare le cose nel modo giusto. Anche l’affetto è dojo, perché fa guardare con uguaglianza a tutte le persone. Al contempo la pietà è dojo, perché porta a lavorare per gli altri. L’espediente (hoben) è dojo, esso edifica le persone. La serenità è dojo, dà distacco dall’odio e dall’attaccamento. L’autocontrollo è dojo, aiuta a sentire nel modo giusto. Saper tollerare le persone è dojo, perché le unisce”.
Tutto sarebbe dojo, perché il mondo stesso è ku. Vimalakirti dice che se predicate in questo modo alle persone, ogni luogo diventa dojo, perché vissuto nell’insegnamento di Buddha. A seguito della divulgazione di questo Sutra tutti i praticanti di buddismo hanno cercato da sempre l’approfondimento del significato di dojo.
Parliamo ora del significato di ku.
Tutti gli studiosi di buddismo hanno cercato di spiegare cosa significa e da dove ha origine il concetto di ku. Alcuni lo intendono come assolutismo, alcuni come relativismo, altri come scetticismo e/o negativismo, altri ancora come nichilismo e altri lo definiscono come fenomeno misterioso.
Per Buddha tutte le cose sono legate in un rapporto causa-effetto mutevole nel tempo. A volte pensiamo che qualcosa non cambi mai e che non potrà mai cambiare. Invece, tutto ha un suo corso, dalla nascita, attraverso la crescita, fino alla morte. Le cose si compongono e poi decadono.
Per esempio, guardando un fiore noi cogliamo la sua bellezza e il suo profumo. Siamo catturati da questo suo aspetto, per noi questo è il fiore. Invece, il suo stato si modificherà fino a un notevole distacco da ciò che avevamo definito come fiore.
Possiamo affermare che karate do può significare shin-gi-tai. Chi ha trovato la definizione di karate do, è una persona saggia e intelligente.
Spesso ci si sofferma troppo su questa differenza. Il pensiero che le cose non cambino è una forma di vanità, non si deve cercare di affermare il proprio pensiero come ego.
Noi viviamo di legami in cambiamento. Ciò che avevo visto era un fiore, dopo un anno non è più un fiore, ma era un fiore! Possiamo dire tranquillamente che la vita contiene e prevede la morte. Quindi, noi guardiamo a tutto il percorso del cambiamento.
Accettare la realtà senza pregiudizio forse significa ku, al di là del discorso di essere o non essere. Questo modo di pensare si definisce chu do.
Ku deriva anche dal sanscrito Sunya che significa gonfiarsi o cavo, vuoto, assente. Nella traduzione in cinese gli è stato attribuito un ideogramma con il significato di cielo e di vuoto, quindi, come se si percepisse un grande cielo.
Chi ha praticato le arti marziali, ha cercato di spiegarsi il significato di ku. Durante un combattimento resta qualcosa di negativo che rimane internamente e che può portare a un decadimento mentale. Attraverso il pensiero di ku si è cercato di curare lo spirito.
Un mare grande solitamente è piatto e tranquillo, ma se si alza il vento sicuramente si formano le onde. Placata la tempesta, torna la tranquillità. L’acqua, in tutto questo, non è cambiata.
Un fattore esterno può modificare lo stato momentaneo delle cose, ma al suo termine, come per l’acqua, attraverso il ku ritorna il proprio stato di tranquillità interiore.
Oggi voi praticate karate do, definito dalla costruzione di tre ideogrammi. Dove si pronuncia kara si trova l’ideogramma di ku. Te è la mano e do la via o si può dire dojo, ovvero, ovunque. Questo diventa quindi come la propria vita.
Avete sentito anche shin gi tai. Shin si può paragonare a ku, inteso come cuore, pensiero.
Gi, la tecnica, è te la mano. Tai, il corpo, si può paragonare a dove si pratica. Per questo possiamo affermare che karate do può significare shin-gi-tai. Chi ha trovato la definizione di karate do, è una persona saggia e intelligente.
Concludo, dicendo che la nostra costanza nella pratica può arrivare all’effetto di praticare il karate tutta la vita; quindi, è bene rispettare tutte le cose e prego che abbiate la vostra felicità.
Grazie per la vostra attenzione.
Gassho, M° Mitsutaka Koso.