1868 – L’era Meiji e il processo di riforma del Giappone: una “rivoluzione dall’alto”.
(in Karate Do n.10 apr-mag-giu 2008)
di Piero Pasini
Nel 1854, al largo della baia di Uraga, sull’orizzonte si dipinse la sagoma delle “navi nere”. La flotta del commodoro Mattiews Perry portava con sé una lettera scritta dal Presidente americano Fillmore in persona, in cui si manifestava l’interesse statunitense per l’apertura del Giappone, interesse volto, dopo l’acquisto della California dal Messico (1848), ad assicurarsi basi sicure per il rifornimento sulla rotta verso la Cina.
Le pressioni internazionali costrinsero lo shogun a firmare, tra il 1854 ed il 1858, una serie di trattati con i paesi occidentali che fecero piombare il Paese nei disordini, nelle tensioni sociali e nella xenofobia. La protesta fu fatta propria da alcuni samurai di medio rango che, con abile politica, erano riusciti a conservare il proprio potere introducendo riforme economiche nei propri feudi, in assenza dei feudatari residenti a Edo.
Nel 1867 questo gruppo di guerrieri guidò una rivolta contro lo shogun e restaurò il potere imperiale.
Fin dal Duecento una peculiarità della politica giapponese era stata la dualità del potere: da una parte l’imperatore (tenno), dall’altra lo shogun.
Fin dal Duecento una peculiarità della politica giapponese era stata la dualità del potere: da una parte l’imperatore (tenno), dall’altra lo shogun. Il tenno era il custode della religione shinto e incarnava la sacralità, da cui derivava la legittimità del potere politico che era delegato allo shogun. In pratica l’imperatore non aveva nessun potere effettivo, ma delegava il governo allo shogun. Senza tale delega (che spesso infatti venne estorta) lo shogun sarebbe stato però considerato un usurpatore.
Sfruttando questo dualismo, forze contrarie allo shogun cominciarono a unirsi, individuando nell’imperatore un’entità sia religiosa sia politica in grado di essere la risposta e il simbolo dell’opposizione alla pressione occidentale.
Il 3 gennaio 1868 il giovane imperatore Mutsuhito, conscio dell’appoggio nel Paese, proclamò l’inizio dell’era Meiji e del processo di riforma del Giappone, chiamò al suo fianco un’oligarchia samuraica e intraprese quella che potremmo chiamare una “rivoluzione dall’alto”, facendo guidare il processo di trasformazione capitalistica da appartenenti alla preesistente classe dominante feudale. Allo stesso tempo fu rafforzata l’idea, basata su antichi miti che affondavano le loro origini nel VIII secolo, del Giappone come “Paese degli dèi” e dell’imperatore come “discendente dell’ininterrotta linea divina”. La dirigenza Meiji iniziò brillantemente il processo di riforma del Paese potendo contare sull’uniformità socio culturale che secoli di chiusura avevano favorito. La trasformazione del Giappone, iniziata con l’era Meiji, consumò la sua prima fase fra il 1868 e il 1890. La parola d’ordine, la formula che descrive l’organizzazione dello stato in questo periodo, è fukoku kyohei (Paese ricco, esercito forte).
La categoria sociale che fu più colpita da questo processo di riforma, fu proprio quella che le aveva dato avvio: i guerrieri, i samurai.
In un modo o nell’altro tutta la popolazione partecipava alla rinascita dell’arcipelago. Una rinascita che mirava all’occidentalizzazione, o meglio, all’equiparazione con l’Occidente. L’obiettivo infatti era quello di dimostrare che il Giappone da sé poteva essere all’altezza dei paesi occidentali.
La categoria sociale che fu più colpita da questo processo di riforma, fu proprio quella che le aveva dato avvio: i guerrieri, i samurai. Da prima il divieto di portare le due spade poi, nel 1872, l’istituzione della coscrizione obbligatoria. Anche altre parti della società furono investite dalla riforma: tutti i sudditi furono indicati eguali di fronte alla legge e l’antica gerarchia sociale confuciana fu di fatto superata.
Nel campo educativo l’oligarchia dirigente si sforzò affinché la cultura occidentale, di cui riconoscevano il primato, venisse promossa e studiata. Fu attuata un’imponente riforma fiscale, gli investimenti statali ebbero una forte spinta: dal contadino all’economia nazionale gli effetti della riforma si fecero sentire in maniera pressante.
In generale, per realizzare le riforme volte a modernizzare il Paese, gli oligarchi Meiji guardarono costantemente all’Occidente, sebbene molti di loro in passato fossero stati accaniti sostenitori dell’isolamento. In effetti, l’accanita opposizione agli stranieri era stata la risposta sciovinistica alla minaccia di essere sopraffatti. La consapevolezza dei progressi tecnologici e scientifici compiuti dagli occidentali indusse i dirigenti Meiji, se non ad abbandonare il loro originario scetticismo, quantomeno a comprendere il percorso compiuto dall’Europa e dal Nord America per rendere “ricco il Paese e forte l’esercito”. Le energie confluite in questo progetto furono mosse dallo stesso spirito patriottico e nazionalistico che avevano portato in un primo tempo il Giappone a chiudersi. Aprirsi all’Occidente significò pertanto resistergli. L’occidentalizzazione, da questo punto di vista, non fu un fine, ma uno strumento per realizzare il fukoku kyohei.