“Lo sport è tempo, il Karate è attimo”: non si può sbagliare, bisogna essere sempre pronti, immaginare, credere e, provando una sola volta, riuscire.
(in Karate Do n. 6 apr-mag-giu 2007)
Roberto Mariani nasce a Milano il 26 dicembre 1976. Diplomatosi in ragioneria con indirizzo programmatore, consegue successivamente la Laurea in Informatica con specializzazione in servizi informativi. Dopo aver lavorato per quattro anni in una società di consulenza informatica, Roberto, attualmente, lavora presso BIT Systems. Il nostro intervistato ammette con sincerità di avere sempre avuto una grande passione per le materie scientifiche pure se, ultimamente, ha scoperto di amare anche la lettura, il cinema e la danza latino americana. Sogni nel cassetto? Una bella carriera professionale, una famiglia con dei figli e ancora tanti successi agonistici come karateka… è chiedere troppo? Forse, ma per un Campione del Mondo di Karate nulla è impossibile!
Dal punto di vista tecnico i miei progressi avvennero velocemente. Ottenni la cintura nera nel 1990 e iniziai le gare nel 1991.
Roberto, quando e con chi hai iniziato a praticare il karate?
Ho iniziato nel gennaio 1989 presso la palestra Shotokan Yudanshakai, con il Maestro Dario Marchini. Allora frequentavo la seconda media.
Perché la scelta del karate?
Il Karate è stata una scelta assolutamente casuale e nemmeno di mia volontà. Certo, come tutti i bambini ero affascinato da film e serial televisivi i cui protagonisti erano samurai o campioni di karate e kung-fu, ma all’epoca la mia vera passione era l’hockey su ghiaccio. Costantemente, ogni sabato e domenica, mio padre mi portava a pattinare al palazzo del ghiaccio di Milano e, mentre lui congelava sugli spalti, io “sfrecciavo” tra le persone, credendomi un fenomeno e sognando di entrare a far parte di una squadra di hockey. C’era un problema però: fisicamente ero ancora molto piccolo e mia madre, temendo chissà quali e quante botte avrebbero aspettato il suo bambino, non mi iscrisse mai e decise, invece, che sarebbe stato meglio un corso di arti marziali, grazie al quale mi sarei potuto rafforzare e avrei potuto imparare a difendermi.
Fortuna? Destino? Non saprei dirlo, per certo so solo che, casualmente, un mio carissimo amico aveva appena iniziato un corso di karate, perciò mia madre decise di iscrivermi con lui!
Con chi ti alleni attualmente?
Dopo essermi trasferito nel 1997 all’Accademia del Karate, seguendo il mio iniziale Maestro, Dario Marchini, ora sono ritornato alle origini e mi alleno nuovamente presso la palestra Shotokan Yudanshakai con il Maestro Carlo Fugazza.
Quali sono le caratteristiche positive che per te contano in assoluto di più in un bravo Maestro di Karate?
Quelle che ti portano contemporaneamente ad amarlo e a odiarlo. Amarlo per il rispetto che porta a volergli, per l’ammirazione che nasce spontanea, per la forza e il coraggio che sa infonderti. Odiarlo, perché riesce a portarti con fatica, sofferenza e dolore a superare ogni volta i tuoi limiti. Umilmente credo che un bravo Maestro debba essere colui che riesce a indicare la giusta via all’allievo, che insegni il modo per seguirla, ma che lasci completamente libera la responsabilità di farlo o meno, correggendo, quando necessario, lasciando sbagliare qualora serva e, in ogni caso, non percorrendo mai la via al posto dell’allievo.
Come si è sviluppato il tuo percorso tecnico e culturale di karateka?
Sicuramente grazie al maestro, ma anche grazie ai miei genitori che, in quest’arte, mi hanno sempre sostenuto e aiutato. Mio padre mi seguiva a ogni gara e mi ricordo ancora quando, con molta discrezione, veniva a ogni lezione in palestra, dopo una giornata di lavoro, solo per vedermi. Il nostro era un rapporto strano: forse c’è stata solo un’unica occasione nella quale ci siamo detti che ci volevamo bene, ma ogni nostro gesto era palese dimostrazione della cosa. Io volevo che fosse orgoglioso di me e questo mi spingeva ogni volta a dare di più, a fare in modo che mai potesse essere deluso da me. Solo ora mi rendo conto che questo non sarebbe mai stato possibile: sarei comunque e sempre stato il suo campione!
Quando hai iniziato a gareggiare e a scoprire le tue doti e capacità agonistiche?
Dal punto di vista tecnico i miei progressi avvennero velocemente. Ottenni la cintura nera nel 1990 e iniziai le gare nel 1991 con il Campionato Italiano categoria cadetti (per i ragazzi dai 14 ai 15 anni), classificandomi 2° in kata e 3° in kumite. Alla fine della gara mi misi a piangere: un misto di rabbia per la sconfitta e di gioia per il grande risultato comunque ottenuto ma, soprattutto, uno sfogo per la tensione accumulata!
Nel 1993 entrai a far parte della squadra Nazionale Italiana di Kata. Era una cosa troppo grande per un ragazzo di 17 anni: la Nazionale. Non riuscivo ancora a capire, non ci credevo, non pensavo di potercela fare. Io, inesperto, venivo selezionato tra i tre atleti che dovevano formare le squadra!
Oserei dire che, nel momento in cui mi resi effettivamente consapevole delle mie capacità, mi accorsi anche di non avere tempo per fermarmi e gioire delle mie prime vittorie: non avevo altra scelta che continuare con ancor più impegno, devozione e costanza.
Era una cosa troppo grande per un ragazzo di 17 anni: la Nazionale.
Quali sono stati i tuoi più importanti risultati agonistici?
Ovviamente, dopo il primo Campionato Italiano di kata, vinto quando ero nella categoria Speranza (1993). Le mie più importanti vittorie sono state il primo titolo di Campione Europeo di kata individuale (Bucarest 1996), seguito da tutti e due i titoli di Campione del Mondo nella stessa specialità (Polonia 1998 e Bologna 2000), entrambi ottenuti riuscendo a recuperare con il punteggio della finale uno svantaggio rispettivamente di 1 e 3 decimi dal peruviano Marcos Moron. Confidavo molto nel mio tokui kata, Unsu, e in ambedue le occasioni riuscii veramente a dare il massimo, gestendo perfettamente tutto il kata, dall’inizio alla fine, come avevo desiderato. L’attesa della prestazione del mio avversario e dell’esito finale della gara fu qualcosa di unico che spero possa riaccadermi!
Sinceramente, tengo tantissimo anche a tutti i titoli ottenuti nella Coppa Shotokan, specialmente quello dello scorso anno, dopo un deludente risultato agli ultimi Campionati Mondiali in Canada.
Durante i recenti Campionati Italiani ti sei particolarmente distinto anche nella gara di Kumite individuale: a cosa credi sia dovuto questo inaspettato risultato?
Sono sinceramente molto soddisfatto di questi campionati di kumite, arrivare all’incontro per il terzo posto con il mio amico Mirko Saffiotti è stato qualcosa di veramente unico, non potrò mai dimenticarlo, soprattutto le emozioni prima di gareggiare e la completa pace una volta iniziata la gara. Ammetto, tuttavia, di aver avuto un po’ di fortuna sia ai Campionati Regionali, sia ai Campionati Italiani ma, come si dice, la fortuna è la forza del principiante! Eh sì, perché in effetti, e visti i miei risultati nel kata, mi sento ancora molto principiante nel kumite.
Ho deciso comunque di fare anche questa gara per non averne il rimpianto una volta che non ne avrò più la possibilità. Non aver sfigurato mi ha dato un’enorme carica e, contemporaneamente, mi sono reso conto di avere ampie possibilità di miglioramento.
Puoi raccontarci qualche aneddoto o evento particolare che ti è accaduto durante tutti questi anni di pratica?
Non potrò mai dimenticare l’esame per cintura nera, credo l’esame più atteso e temuto da tutti i principianti di karate. Mi ricordo tutto di quel giorno: era il 23 dicembre 1990 e feci l’esame all’impianto sportivo Saini di Milano. Avevo la febbre e non stavo affatto bene, tanto che, alla fine, rimasi anche senza voce, come se in quella prova avessi impiegato proprio tutte le mie energie: avevo dato tutto e non mi restava che aspettare l’esito. Andò quasi tutto benissimo. Sì, quasi tutto, perchè presi il massimo dei voti in kihon e kumite, ma il minimo in kata, Kankudai. Lo sbagliai ritrovandomi alla fine con le spalle alla commissione! Non so ancora spiegare cosa mi passò per la testa durante quell’esecuzione, ma so per certo che finii il kata nel verso sbagliato. Mi girai in direzione dei Maestri e mestamente ritornai al punto di partenza, concludendo il kata con il saluto. Ovviamente, me lo fecero ripetere. In attesa dell’esito stavo malissimo. Ero deluso, non ero riuscito a fare quello che da tempo avevo preparato con tanto impegno. Non dimenticherò mai quella giornata! Era l’inizio della mia pratica di karateka.
Agonisticamente parlando sono molti gli aneddoti da poter raccontare, ma uno che ricordo con particolare simpatia, fu in occasione della prima prova di kata individuale nel mio primo Campionato Europeo, a Passau (Germania) nel 1993. Probabilmente il Maestro E. Contarelli non si ricorderà nemmeno dell’accaduto, ma io non potrò mai dimenticarlo: entrai sul tatami molto carico, deciso a dare il massimo. Feci il saluto e urlai “Gojushiho Sho”. Il Maestro Contarelli, arbitro centrale, ripeté il nome: “Nijushiho”. Panico! Non sapevo più che fare, non sapevo più se l’esecuzione del mio kata, travestito da Nijushiho, potesse esser valida. Cercai di fare mente locale tra l’adrenalina del momento e decisi di urlare con ancor più forza e decisione il nome: “Gojushiho Sho”. “Nijushiho” fu la nuova risposta del Maestro-arbitro centrale! Mi sentivo perso, mi sembrava uno scherzo crudele del destino, sarei voluto uscire dal tatami senza farmi notare. In conclusione, feci cenno di “No” con la testa, rifeci il saluto iniziale, pacatamente e scandendo bene il nome dissi: “Gojushiho Sho”. Sorridendo per la risolta incomprensione Contarelli ripetè: “Gojushiho Sho” e tutti gli arbitri segnarono sul loro foglio di valutazione il corretto nome del kata. Finii la gara secondo, ottimo come primo risultato!
Non potrò mai dimenticare l’esame per cintura nera… lo sbagliai ritrovandomi alla fine con le spalle alla commissione!
Perché e come il karate riesce a essere parte fondamentale della tua attuale vita quotidiana?
Vorrei rispondere a questa domanda con una frase del Maestro Gichin Funakoshi: “Lo scopo ultimo dell’Arte del Karate non consiste nella vittoria o nella sconfitta, ma nella perfezione del carattere dei suoi praticanti”. Come si nota anche da questa frase, al karate non si può associare un significato puramente sportivo, anche se va riconosciuto alle competizioni il merito di elevare il livello tecnico degli atleti.
Usando una sola frase si può dire che “Lo sport è tempo, il Karate è attimo”. Un esempio: sport è tirare il giavellotto, karate è tirare il giavellotto mirando con precisione un bersaglio posto a notevole distanza. Non si può sbagliare, bisogna essere sempre pronti, immaginare, credere e, provando una sola volta, riuscire. Banalmente, potrei dire che il karate mi ha insegnato a essere pronto prima, a controllare gli istinti e ad aver rispetto delle persone e delle situazioni.