Gli stili calligrafici dello shodo. Nel loro apprendimento anche le assonanze con il karate do.
(in Karate Do n. 4 ott-nov-dic 2006)
Il termine corsivo ci porta subito alla mente una scrittura veloce, un po’ “tirata via”, per far presto, una scrittura da grandi, solo i bambini infatti scrivono chiaro e facilmente leggibile. Quindi, normalmente, nella moderna società occidentale s’impara a scrivere in maniera molto chiara, dove tutte le lettere sono ben visibili e riconoscibili. Poi, crescendo, la scrittura diventa personale, la capacità acquisita nello scrivere ci fa aumentare la velocità e, naturalmente, senza nessuna indicazione, scriviamo liberamente, differenziandoci così uno dall’altro. Non per niente esistono grafologi che da uno scritto sanno indicare le particolarità del carattere della persona stessa.
Per chi pratica lo shodo, il passaggio da uno stile calligrafico a un altro è sempre indicato dal maestro.
Tralasciamo in questa sede il fatto che, con la grande diffusione del computer, si scriva ormai ben poco a mano, sottolineando che la scrittura, nella società occidentale moderna, sia solo di utilità e non abbia altro scopo che la comunicazione.
Tralasciamo, inoltre, il fatto che diversi studiosi denuncino che tale mancanza di manualità (che si espande anche in tante altre attività dove la tecnologia ha sostituito molte funzioni della mano) sia dannosissima per il nostro cervello.
Veniamo, invece, alla calligrafia giapponese che è suddivisa in diversi stili (che ricordo sono stati importati dalla Cina) e dove, per chi pratica lo shodo, il passaggio da uno stile calligrafico a un altro è sempre indicato dal maestro.
STILI CALLIGRAFICI
TENSHO – STILE DEL SIGILLO (403-221 a.C.)
La nascita di questo stile, il più antico, è accompagnata dal primo tentativo di unificazione della scrittura, che fu portato a termine sotto la dinastia Qin. Dopo aver provveduto all’unificazione del paese e posto fine al periodo dei “regni combattenti”, l’imperatore ritenne fondamentale per uno stato centralizzato avere un’amministrazione capace e capillare e vide nella scrittura uno strumento importantissimo. In questo stile si cerca l’equilibrio tra tratti verticali e orizzontali, ancora oggi viene utilizzato per i caratteri da incidere sui sigilli con il nome di famiglia o per lo pseudonimo di calligrafi e poeti.
REISHO – STILE DEI FUNZIONARI (221 a.C.-210 d.C.)
Alla dinastia Qin successe la Han per un arco di circa 400 anni. Questo periodo è caratterizzato dall’introduzione del buddhismo e dalla scoperta della carta, la scrittura non è più riservata agli alti funzionari di corte, ma anche a quelli di rango minore. Il reisho è la prima forma di scrittura nata utilizzando il pennello, le forme perdono le caratteristiche di simmetria del precedente e hanno tratti sempre più diritti e stilizzati.
SOSHO – STILE A FILI D’ERBA O CORSIVO (206 a.C.-8 d.C.)
Questo stile nasce da esigenze commerciali e viene usato dai mercanti e dagli operai in quanto i caratteri hanno forme estremamente semplificate, ma diventando comunque di difficile interpretazione. Oggi questo stile viene molto usato nella vergatura di poesie o di altri testi letterari, dove la necessità di lettura si sostituisce a esigenze estetiche e di libertà artistica.
GYOSHO – STILE SEMI CORSIVO O CORRENTE (206 a.C.-220 d.C.)
Anche questo stile nasce nella stessa epoca, ha caratteri meno abbreviati rispetto al sosho, ma sempre scritti con un veloce movimento del pennello.
KAISHO – STILE REGOLARE O STAMPATELLO (300 d.C.)
In questo stile i caratteri sono vergati in modo molto chiaro ed è quindi di facile lettura; è il modello esemplare, la struttura formale da assimilare prima di affrontare forme di scrittura artisticamente più creative.
Oltre a questi stili cinesi, in Giappone, nel periodo Heian, nasce una forma di scrittura fonetica chiamata kana che deriva da un’estrema semplificazione e stilizzazione degli ideogrammi (kanji, letteralmente caratteri cinesi) che erano già utilizzati foneticamente dal periodo Nara (man’ yogana). I kana erano suddivisi in hiragana e katakana.
Gli hiragana all’inizio furono utilizzati largamente dalle dame di corte, per questo motivo, questa scrittura fu chiamata anche onnade (lett. mano di donna).
I katakana invece, si svilupparono soprattutto tra i monaci, che studiavano i testi sacri buddhisti (importati dalla Cina) per annotarsi la pronuncia a fianco dei caratteri che dovevano leggere.
Si ha quindi che la scrittura giapponese, a partire dall’epoca Meiji, è formata dall’insieme di kanji e da kana (Nelle scuole giapponesi, oltre al kana, vengono studiati gli ultimi due stili, il kaisho, all’inizio delle elementari e il gyosho, all’inizio delle superiori).
Suppongo che il lettore praticante di karate abbia certamente colto, in quanto sopra esposto, la somiglianza con le due metodologie impiegate nello studio del karate: la pratica costante di movimenti molto precisi nel kihon e nei kata e l’uso di movimenti più “liberi” nel kumite.
Nell’apprendimento dello shodo, con il tempo, si studiano tutti gli stili, affrontando per primo lo stile regolare in cui ogni ideogramma è composto da una serie di tratti (che sono come dei fondamentali) rigorosamente definita, sia come sequenza da rispettare sia nel modo di eseguire ogni tratto: dove iniziare, dove mettere forza, dove lasciare leggero ecc., non c’è assolutamente spazio per la fantasia o estro personale. Quando si è dimostrata una discreta sicurezza e capacità, si passa allo stile gyosho, i tratti, che dapprima erano ben distinti uno dall’ altro, ora si collegano tra loro in modo più libero, ma non perdendo, nei principi, quanto acquisito precedentemente.
Come per la scrittura occidentale, anche in questo caso, dalla calligrafia emerge il carattere del calligrafo che comunque è guidato dal maestro (che ovviamente ne lascia un’impronta) e dagli scritti dei grandi maestri del passato: copiandoli e ricopiandoli si entra in risonanza con il loro ritmo, si coglie la loro energia ed è quindi più facile poi comprendere anche la fonte della propria.
Possiamo dire quindi che, senza un lungo percorso di infinite ripetizioni dell’ideogramma, non sia possibile fare uscire un gesto libero che non sia solo un’esecuzione frettolosa.
Ripensando al mio articolo precedente in questa rivista, dove si assimilava la calligrafia giapponese alle arti marziali, suppongo che il lettore praticante di karate abbia certamente colto, in quanto sopra esposto, la somiglianza con le due metodologie impiegate nello studio del karate: la pratica costante di movimenti molto precisi nel kihon e nei kata e l’uso di movimenti più “liberi” nel kumite.
Pensando che la precisione del movimento studiata nel kihon sia unicamente in funzione dei kata e contenga solo valori estetici, ecco che qualcuno, interessato esclusivamente al kumite, sottovaluta e tralascia questo studio, allenandosi in maniera libera, non accorgendosi di quanto venga perso dalla mancanza di compenetrazione di questi due aspetti.
D’altro canto, anche chi fa il contrario manca di completezza, fortunatamente nella Fikta questo concetto è ben chiaro e viene visibilmente portato avanti sia nei programmi tecnici che in quelli agonistici.